Testo e foto di Sabiha Mahmoud
Non lontano dalla centralissima İstiklal Caddesi, transito obbligato per i turisti, c’è il quartiere di Tarlabashi. Un agglomerato urbano evitato dagli stessi abitanti di Istanbul, la cui semplice menzione desta preoccupazione. “Non andarci, è troppo pericoloso”, mi hanno ripetuto varie volte.
Proprio lì, una domenica mattina, a poco più di un chilometro dalla via dello shopping, seguo gli attivisti Cemile, una studentessa che sta completando la tesi di laurea, e Irhan, futuro ingegnere metalmeccanico alla ricerca di Kadir Bali, un trentunenne che da dieci anni apre il suo piccolo appartamento ai rifugiati appena giunti in città e in cerca di un rifugio sicuro.
Per tutto il tempo che trascorriamo con Kadir, il suo telefono squilla senza pause. Tra una chiamata e l’altra ci spiega come funziona il transito dei rifugiati, il tipo di storie strazianti di cui sono portatori, la loro ambizione di sfuggire alle ristrettezze economiche della terra natìa in cerca di un futuro dignitoso. Vivono tutti a Tarlabashi, in piccole e anguste case. Camminiamo per bui corridoi dove ci sono cavi scoperti, tubature in bella vista e cemento crudo. In cucina c’è un grosso contenitore di acqua e una lampadina che viene svitata dal soffitto e portata di volta in volta nelle stanze dove la luce è necessaria. Il sovraffollamento è evidente la notte, quando tutti tornano dal lavoro. Dopo le introduzioni del caso e il benvenuto con tè turco, il sorriso di Kadir diventa sempre più rado con il sopraggiungere dei pensieri, si fa serio e con freddezza ci dice che i suoi “fratelli neri”, come li chiama, hanno già affrontato più difficoltà di quanto spettasse loro. Sui social network così come dal vivo devo darmi un gran da fare per spiegare che questi fratelli neri sono effettivamente miei fratelli e in nessun modo devono essere molestati”.
Durante la pausa té Thompson Ares, un rifugiato nero di 37 anni, passeggia per la stanza. Conversiamo in inglese, decisamente meglio rispetto al mio tentativo di chiacchierare in turco. Gli chiedo di raccontarmi la sua storia, mi dice che in Ghana ha moglie e tre figli. “Puoi chiamarmi Tom, come fanno i miei amici turchi che non sanno pronunciare il mio nome. Lavoro 13 ore al giorno e dovendomi pagare l’affitto del mio salario non resta quasi niente. Il razzismo e le discriminazioni che subisco tutti i giorni sono indicibili, penso spesso di tornarmene a casa ma le persone che tengono a me mi fanno desistere”.
In effetti i rifugiati africani in Turchia hanno molta difficoltà a trovare una camera in affitto, spesso vengono imbrogliati dai locali con prezzi da estorsione che ho effettivamente verificato e affrontano una costante esclusione sociale. Anche lungo le strade, dove vengono scansati per il colore della loro pelle.
Forse Numan Kurtulmuş, vicepresidente del Consiglio che ha accompagnato recentemente Erdogan in un viaggio in Africa non conosce la realtà di Tarlabashi quando afferma che “per la prima volta da quando è finito l’Impero Ottomano gli africani vedono una mano bianca che non li sfrutta, schiavizza o tira loro pugni in testa”. A Tarlabashi molti africani stanno sperimentando sulla loro pelle questa “mano bianca” turca che non li sfrutta. L’aumento del traffico di droga e della criminalità in nome della gentrificazione che porta i residenti a vendere le loro case a prezzi stracciati è semplicemente spaventoso.
Continuando la passeggiata a Tarlabashi incontro un ragazzo di nome Peter Ramanda. In Sierra Leone faceva il calciatore professionista ma per motivi politici ha dovuto abbandonare il suo paese. Se ne sta mestamente in un appartamento al piano terra di un palazzo, dove condivide la stanza con più di otto persone.
Lui e i suoi amici vengono chiamati ogni tanto per piccoli lavoretti, come raccogliere l’immondizia per strada per qualche lira. Mi viene da urlare con frustrazione: “Istanbul è un mercato di schiavi?”. Nella stanza si forma un silenzio-assenso. Poi mi raccontano alcune situazioni particolari per le quali si deve passare per mantenere lo status di rifugiato. Peter lascia la stanza e torna con in mano l’attestato d’asilo. Dura sei mesi. “Devo andare fino ad Ankara per ottenerla, devo pagare 800 dollari per raggiungere uno status di legalità. Ed è una somma difficile da ottenere”, mi scuote la carda con evidente frustrazione. In più ci sono 650 dollari mensili d’affitto. Raccoglie tutte le ricevute per dimostrarci quanto costa sopravvivere in queste squallide condizioni. Eppure avrebbe così tanto da dare alla società, parla un inglese migliore di tantissime altre persone. Semplicemente il colore della pelle lo trattiene da ciò che vorrebbe e saprebbe fare bene, giocare a calcio.
Mentre chiacchieriamo con i ragazzi della Sierra Leone, riceviamo una telefonata che ci avvisa dell’arrivo di Mariam e del figlio Hamza. Gli attivisti mi dicono che devo assolutamente conoscerla. Il suo vero nome è Salamatu Banguru ma tutti la chiamano affettuosamente Mariam. E’ arrivata in Turchia due anni fa, alla ricerca di una buona istruzione, su invito del suo fratello maggiore. Quando questo è stato arrestato, svanita l’illusione dell’istruzione, è diventata una senzatetto e si è sposata con Abbasie Kargbo. Dal loro amore è nato Hamza, che ora ha un anno. Il bimbo non è stato ancora vaccinato: all’ospedale si sono rifiutati di vaccinarlo perché nero e tuttora non è protetto dalle malattie infantili. Un razzismo che emerge in ogni sfaccettatura delle loro vite, come spiega Kadir: “Né lo stato né le associazioni ufficiali aiutano i volontari che supportano i rifugiati africani”.
Ogni persona incontrata ha una storia straziante da raccontare. Come Gulzade, una donna di 83 anni che per molti anni è vissuta da sola, nel suo appartamento a Tarlabashi. Mentre la incontriamo passa un auto del seggio elettorale. Devono raccogliere il suo voto per il secondo turno, visto che non si raggiunge una maggioranza in parlamento. Appena il veicolo riparte, scherzando mi confessa: “Ho messo una ics accanto a ciascun riquadro, per renderli tutti felici”. Anche lei, presto, sarà senza casa.
Esattamente sotto di lei vive una donna indonesiana di fede cristiana, in una stanza piccola e angusta. Mentre ci rilascia la sua testimonianza, si diffonde la notizia che una giornalista sta facendo fotografie. La situazione si agita quando un auto civetta passa due volte attorno a noi, per vedere quello che stiamo facendo.
Proprio mentre stiamo per lasciare Tarlabashi, Peter viene verso di me e mi tocca la spalla: “Ti prego sorella, dì a tutti che la vita non dovrebbe essere così difficile, abbiamo dei diritti anche noi. Se ci avete aperto la porta alla fine del corridoio, non sbattetecela in faccia dopo tante lotte per arrivarvi. Dateci la possibilità di vivere, non solo di sopravvivere”.
Sabiha Mahmoud ha avviato una campagna di crowd-funding su Indiegogo per aiutare queste persone a uscire dalla loro precaria condizione. Puoi fare la differenza, condividendo questa storia.
Profilo dell'autore
- Dal 2011 raccontiamo il mondo dal punto di vista degli ultimi.
Dello stesso autore
- Europa3 Marzo 2024La maglia multicolore che unì basket, musica e TV per la Lituania libera dall’URSS
- Universali3 Marzo 2024Il vero significato di Bambi (e perché Hitler ne era ossessionato)
- Universali29 Febbraio 2024Hedy Lamarr, la diva di Hollywood che “concepì” Wi-Fi e Bluetooth
- Europa28 Febbraio 2024La tregua di Natale del 1914, quando la guerra si fermò per una notte