di Riccardo Bottazzo
Chiunque abbia viaggiato in America Latina, non avrà potuto fare a meno di notare che in questo angolo di mondo le chiese sono due. Non c’è possibilità di confondere l’una con l’altra. Non c’è neppure uno spazio di compromesso. Chiunque creda al messaggio evangelico, in Sudamerica, è chiamato a fare una drastica scelta: o sta di qua, o sta di là. Poi tutto viene di conseguenza.
Anche chi viene da oltreoceano, dove questa scelta non è imposta, e abbia percorso con una attenzione poco più superficiale le strade che spaziano tra le infinte pianure e le invalicabili montagne, tra impenetrabili selve e sterminate metropoli, non può non essersi accorto che le marmoree cattedrali con gli altari ricoperti di bandiere nazionali e i primi banchi perennemente riservati, in ordine di grado, alle alte gerarchie dell’esercito, non hanno nulla a che spartire con le coloratissime chiese di fango dove la statua di Maria partoriente divide la mensola di legno con divinità indigene raffiguranti la madre terra. Il Cristo di San Salvador, dalla faccia dura e dalla tunica immacolata che calpesta il mondo, non è lo stesso Cristo raffigurato nei crocifissi arcobaleno intento a mietere il grano mentre gli apostoli pescano o giocano con i bambini indigeni.
Così come quei vescovi che aspergono di acqua santa i mezzi blindati che partono per pattugliare le strade del Chiapas, non hanno nessun dio in comune con quel prete col berretto rosso fuoco dei Sem Terra calcato sulla fronte, che ho conosciuto a nord di Rio mentre aiutava a tirare su una barricata per contrastare lo sgombero della favella. “Stavolta verranno da questo lato della collina”, mi spiegava mentre sistemava la cassa con le bottiglie incendiarie. “Dalla strada principale li abbiamo già respinti due volte”. Che fosse un prete, lo ho scoperto solo il giorno che me ne sono andato, quando l’ho beccato a dire messa in un seminterrato davanti a quattro persone di numero. Devo aver fatto una faccia, ripensando a tutti i cristi e i santi che avevo tirato giù durante gli scontri… Lui mi ha dato una pacca sulle spalle e mi ha detto “Se hai problemi, laggiù in Italia, torna qua che tiriamo su una baracca anche per te”. Posso vantarmi di possedere potenzialmente una villetta con vista sul Pan di Zucchero.
A questo punto, avrete capito senza che debba aggiungere altro, quali sono le due chiese, l’una contro l’altra armata, cui mi riferisco. La notizia di questi giorni è che, per la prima volta nella storia della cristianità in questo Continente, un papa – vuoi come Capo di Stato, vuoi come rappresentante di dio in Terra – è sbarcato su questo lato del mondo con l’intento dichiarato di rendere omaggio all’altra chiesa.
Da quando i conquistadores spagnoli, di spada e di fuoco, portarono il vangelo su questa sponda d’oceano, mai un papa aveva fatto tanto. Non certo Karol Wojtyla, anzi, San Karol Wojtyla, che preferiva benedire dittatori delinquenti come il cileno Augusto Pinochet, consegnare vescovi come Oscar Romero al macello, allearsi con in carnefici del piano Condor e stendere il silenzio sui teorici della Liberazione. Tutte qualità che hanno fatto guadagnare a Giovanni Paolo secondo, anzi a San Giovanni Paolo secondo, un bell’altare di marmo lucido nelle chiese frequentate dai militari.
Francesco no. Al di là della retorica del “papa dalla parte degli umili” che ha accompagnato tanto il suo viaggio in America latina quanto il suo intero pontificato, non possiamo fare a meno di sottolineare come il suo inchinarsi alla tomba del vescovo “zapatista” Samuel Ruiz, le celebrazioni delle messe nelle lingue indigene come lo Tzotzil e lo Tzetal (che sono gli idiomi parlati dalle popolazioni insorgenti), siano importanti e inequivocabili segnali di un radicale cambio di rotta della Santa Sede. Anche la data del viaggio è un segnale: vent’anni esatti da quegli accordi di San Andres che il Governo sottoscrisse con l’Esercito Zapatista di Liberazione nazionale e che avrebbero garantito autonomia e dignità agli indigeni. Accordi che il Messico rinnegò dopo neppure tre mesi.
Se questo cambio di rotta verso un vangelo più attento ai diritti degli ultimi sia dettato da una riflessione etica o sia piuttosto un’abile mossa propagandistica per riconquistare consensi tra gli strati più poveri della popolazione (mai troppo devoti a Santa Romana Chiesa in questo continente dove il cattolicesimo deve fare i conti con un protestantesimo in forte ascesa), badando bene di non inimicarsi i poteri che contano, è il vero mistero che attraversa tutto il pontificato di Francesco.
Certo, anche il “papa dalla parte degli umili” si è ben guardato, non soltanto dall’incontrare i genitori, ma anche dal ricordare in una solo preghiera i 43 ragazzi desaparecidos della scuola di Ayotzinapa. Una scelta che lo avrebbe messo in aperto contrasto con il Governo messicano che, diciamola coma va detta, è il principale responsabile di questo (e di tanti altri) omicidi legati al narcotraffico. Non esita però Francesco a farsi applaudire dalla folla quando dal pulpito invita i fedeli messicani a non cedere alle lusinghe del narcotraffico, affiancato da ministri sorridenti e militari in divisa che, tanto per dirla come va detta anche questa volta, sono i primi ad avvantaggiarsi dai proventi economici e dal potere politico che derivano da questo floridissimo ed inarrestabile commercio.
Quello che è approdato in Messico, in sintesi, è lo stesso Francesco che è partito dall’Italia. Papa rivoluzionario, secondo alcuni, perché ha scritto una enciclica sull’ambiente e perché sottolinea le ingiustizie del capitalismo. Senza considerare che da mezzo secolo scienziati ed ambientalisti denunciano le devastazioni all’ecosistema globale e che, da quasi due, un tizio di nome Carlo Marx – che però non era un papa – ha messo in luce le contraddizioni del binomio capitale – lavoro.
Certo, nessuno può negare che, in Messico come in Italia, Francesco stia portando avanti una battaglia per una chiesa diversa da quella fatta di scandali economici e di pedofilia costruita da Karol Wojtyla.
Basta questo per definire Francesco un papa rivoluzionario? Sì, se vi accontentate… Io, personalmente, continuo a preferirgli quel prete di Rio che occupava latifondi per restituire la terra ai contadini, celebrava messa di nascosto e che mi chiedeva un sigaro per accendere le molotov.
Profilo dell'autore
-
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.
Dello stesso autore
- Centro e Sud America28 Febbraio 2021Perché si parla di genocidio del popolo guaraní
- Americhe31 Gennaio 2021Gli zapatisti sbarcano in Europa: cosa dobbiamo aspettarci
- Africa27 Dicembre 2020Fare opposizione nell’Africa dimenticata. Il caso del Togo
- Europa22 Novembre 2020Kosovo, la fine di Thaçi detto il Serpente