Erdogan, i militari e Gulen. Il puzzle turco del post ‘golpe’

Gli effetti del fallito colpo di stato non tardano ad arrivare. Il ‘sultano’ emerge come unico vero vincitore, mentre cambiano le relazioni diplomatiche con le super potenze e si entra nella stagione delle purghe di massa. Intanto il paese non è mai stato così polarizzato

di Valeria Ferraro

Incredulità, stupore e tanti interrogativi. Queste sono solo alcune delle sensazioni provate davanti alle notizie sul colpo di stato in Turchia e alle prime immagini che riprendevano i soldati e i carri sui ponti del Bosforo, a Istanbul. La rivendicazione dell’atto da parte di una giunta militare è subito credibile, così come la motivazione: rovesciare il governo di Recep Tayyip Erdoğan, ritenuto troppo autoritario e distante dal laicismo stretto di Atatürk. In fondo, dal 1960, le forze armate sono state a capo di altri quattro colpi, a cadenza decennale, per arginare il diffondersi dell’Islam politico e per mettere fine agli scontri di potere tra diverse fazioni. Tuttavia, passato il momento della reazione di pancia emergono i primi dubbi, soprattutto in considerazione dei mutamenti socio-politici degli ultimi venti anni e dei tentativi di ridimensionamento del ruolo dell’esercito negli affari civili. 

Il primo pensiero: davvero sono stati solo i militari, i vecchi antagonisti dell’AKP, quelli che nel 2007 tentarono di boicottare l’elezione di Gül? Poco possibile, molto più probabile che ci sia stato l’aiuto di qualche altra forza. Il pensiero è corso così ai sostenitori del predicatore Fetullah Gülen, capo di un movimento accusato di voler rovesciare il governo. Anche Stratfor sembra accarezzare l’idea, ma con cautela: niente affermazioni certe ma ipotesi sulla base degli eventi politici degli ultimi anni.

Il rapido svolgersi degli eventi, versioni e hanno portato ad aspettare e leggere le prime analisi e i primi punti fermi su gli autori e le dinamiche del fallito colpo di Stato, cercando così di comprendere le possibili implicazioni nella politica interna ed estera.

Dinamica

Secondo quanto riportato dai media e dai commenti dei cittadini social media, a caldo e nei giorni seguenti, è possibile rintracciare i momenti salienti del colpo di Stato, iniziato con l’occupazione da parte dei soldati dei due ponti sul Bosforo e con F-16 ed elicotteri in volo su Istanbul e Ankara. Poco dopo, il Premier Binali Yildirim ha denunciato il tentativo di un colpo di Stato, confermato poi dalle parole della speaker della Radio Turca (RT) che trasmette il comunicato di una giunta militare che giustifica l’azione con l’intenzione di riportare la democrazia nel Paese. Nel corso della notte sono state sentite esplosioni a Istanbul e Ankara, i golpisti hanno occupato stazioni TV, preso come ostaggi il capo delle Forze Armate e colpito il Parlamento e, verso il mattino, il Palazzo Presidenziale. Intanto il Presidente Erdoğan lasciava Marmaris, dov’era in vacanza, e lanciava un appello ai suoi sostenitori in un’intervista con un giornalista della CNN Türk, via FaceTime. La risposta positiva dei sostenitori, scesi in strada per opporsi ai golpisti, la resistenza della polizia e dei servizi segreti e dei lealisti nell’esercito ha contribuito alla ripresa delle basi e degli uffici militari.

Il ritorno di Erdogan a Istanbul, dov’è stato accolto dai suoi sostenitori, dopo diverse speculazioni dei media internazionali sulla possibilità di riuscire a scappare in uno spazio aereo controllato dagli F-16 dei golpisti, ha contribuito a rafforzare l’idea del fallimento del colpo di Stato, contro il quale s’erano dichiarati i capi dei partiti d’opposizione.

Poco prima delle sette del mattino iniziano a circolare le immagini dei militari che si arrendono sul Ponte del Bosforo. Con un commento riportato da The Guardian, Ümit Dündar, nuovo Capo Comandante delle Forze Armate dichiara “chiuso irreversibilmente il capitolo dei colpi militari”. Per chi si aspettava la vittoria dei militari e uno scenario simile a quello precedente agli anni ’80 è una delusione, il mito del soldato che riporta la democrazia, offuscato. La foto di un soldato tenuto dai sostenitori del governo mostra un giovane dal volto sconvolto e impaurito. D’altra parte, alcuni militari arrestati dichiareranno poi di non esser stati informati su quel che accadeva, pensavano di aver preso parte ad un’esercitazione, come da ordini superiori. “Solo dopo aver visto la gente salire sui tank, ci siamo resi conto che era tutto vero”, ha dichiarato qualcuno.

Otto golpisti sono scappati in elicottero ad Alessandropoli, in Grecia, chiedendo asilo politico alle autorità greche che hanno rifiutato la richiesta di estradizione della controparte turca.

Resta, però, l’interrogativo su chi abbia coordinato la fazione di minoranza di militari che ha guidato il golpe. Ad oggi, l’accusa principale è rivolta al colonnello Muharrem Kose, già sospettato di appartenere al movimento di Fetullah Gulen, indicato dai governativi come il mastermind del tentativo di rovesciamento del governo, nonostante le smentite del diretto interessato dalla sua dimora in Pennsylvania.

Intanto sabato 16 luglio, nel pomeriggio, dalla riunione speciale del Parlamento è risultata una riposta unitaria e condivisa dei partiti d’opposizione sulla necessità di preservare la democrazia del Paese. Demirtaş, rappresentante del partito filo-curdo, abbia tenuto a precisare d’essere contrario a qualsiasi colpo di Stato pur lasciando intendere di non condividere del tutto le posizioni del partito di maggioranza, rispetto alle questioni di politica interna irrisolte. In primis, ovviamente, il modo di affrontare la questione curda.

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Sabato sera è stato il momento della celebrazione dei sostenitori del governo e, soprattutto, di Erdogan, e tentativo di ritorno alla normalizzazione, opinione quasi condivisa che un colpo di Stato non avrebbe fatto altro che portare ulteriore caos nel Paese, con una guerra civile. L’esempio di Siria, Iraq e Libia insegna. Tuttavia il bilancio è pesante: 232 morti di cui almeno 208 civili, più di 1,440 feriti negli scontri. Ancora più imponenti le cifre delle persone arrestate, comprese quelle sospettate di sostenere il movimento di Gulen: 7.543 militari detenuti, tra i quali ufficiali di alto rango della base d’Incirlik, da cui partono le offensive contro l’Isis in Siria, come il generale Bekir Ercan Van, accusato di aver procurato il carburante per i voli degli F-16. Rimossi anche 2,745 giudici, 140 membri della Corte Suprema e 48 membri del Consiglio di Stato. In fondo, la magistratura è spesso indicata come una delle istituzioni più infiltrate dai gulenisti. Un bilancio probabilmente destinato a salire, a mano a mano che si estenderanno le indagini e che riporta l’attenzione sui continui arresti e sull’equità dei processi. Un punto che, negli ultimi anni ha interessato i tre attori più citati nelle notizie di questi giorni: gli esponenti dell’AKP, i militari e i gulenisti.

MILITARI E GULENISTI

Un tempo, come ha affermato nel 2010 Soner Çağaptay, analista del Washington Institute for Near East Policy, sarebbe stato impensabile criticare i militari turchi, spesso descritti come i difensori dei principi ideologici trasmessi dal generale Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Repubblica.

Nel corso della storia repubblicana, i membri delle forze armate sono intervenuti in quattro occasioni per riportare la stabilità in periodi di forti tensioni sociali. Il primo il colpo di Stato del 27 maggio 1960, guidato dal generale Kenan Evren, costò la vita al Primo Ministro, Adnan Menderes, e portò alla fine del governo del Partito Democratico che voleva reintrodurre la religione nella vita pubblica, con l’apertura di moschee e scuole religiose. Oltre che ridurre la libertà di stampa. Seguì un periodo di transizione, con la guida del generale Cemal Gürsel, durato fino al 1965.

La crescente instabilità politica ed economica, nella seconda metà degli anni ’60, portò al secondo colpo di Stato nel 1971, con la consegna di un memorandum, in cui si chiedeva la formazione di un governo forte e ispirato ai principi kemalisti, al Primo Ministro Süleyman Demirel che, invece, rassegnò le dimissioni. Gli anni successivi furono caratterizzati da una continua alternanza di governi e da una forte instabilità. Così, il 12 settembre 1980, i militari intervennero, nuovamente guidati da Evren, che assunse il ruolo di presidente per nove anni, nel corso dei quali fu promulgata la Costituzione, tutt’ora vigente, e furono realizzate importanti riforme che hanno permesso la liberalizzazione economica e la crescita del Paese, continuata poi con la Presidenza di Turgut Özal, che ha permesso ai partiti islamici di emergere sulla scena pubblica negli anni ’90. Il colpo di Stato del 1980 è, tuttavia, ricordato come il più sanguinoso della storia: processi frettolosi, torture, sparizioni nelle carceri, soprattutto per gli esponenti dell’estrema sinistra. Nel 2014, lo stesso Evren fu condannato all’ergastolo per “crimini contro l’umanità”, durante il golpe. Il marchio lasciato dalle violenze degli anni ’80 ha influito sul processo di revisione del ruolo dell’ideologia kemalista e l’intervento dei militari nella vita democratica del Paese. Il quarto colpo di Stato, quello del 1997, non vide l’intervento diretto dei militari, ma una forte pressione esercitare pressioni sul Primo Ministro, Necmettin Erbakan, con una “nota”, realizzando il primo colpo post moderno o “morbido”, in conseguenza del quale il Primo Ministro si dimise e il suo partito islamico, Refah (Partito del Benessere), fu sciolto. I militari hanno mantenuto però il ruolo di controllo rispetto possibili “derive” religiose anche nella fase di stabilizzazione al potere dell’AKP, fondato tra l’altro da ex membri del Refah, esprimendo le perplessità in merito all’elezione di Abdullah Gül come presidente, nel 2007 attraverso un comunicato internet (c’è chi parla di e-coup). La successiva vittoria del candidato dell’AKP è stata celebrata dai media  non solo come una conferma del partito ma anche una sorta di affrancamento dall’influsso dei militari e una libera scelta della società civile.

L’opera di de-politicizzazione dei militari è proseguita con il referendum del 2010, che prevedeva una riduzione del loro ruolo, e con gli arresti del 22 febbraio dello stesso anno quando, grazie alle registrazioni al sostegno dei gulenisti, furono accusati di voler rovesciare il governo.

Ma chi sono i sostenitori di Gülen e perché negli ultimi anni si parla tanto di loro come forza oscura? Il 75enne Fetullah Gülen è un imam e predicatore spirituale, a capo di un movimento spirituale, l’Hizmet (servizio), fondato negli anni ’70, membri della sua comunità (cemaat) condividono visione di un islam da praticarsi al di fuori delle moschee, nella vita quotidiana, adatto alle mutate situazioni storico-sociali. Il movimento può contare su scuole e residenze universitarie (ışıkevis), media, istituzioni finanziarie e banche, associazioni umanitarie e fondazioni. C’è chi ne parla come un movimento islamico moderato che si rivolge a turchi istruiti e c’è chi lo vede come una sorta di setta che aspira a fare proseliti per poi inserirli in posizioni chiave all’interno di amministrazioni e forze armate.

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Il sostegno e la capacità pervasività sociale dei gulenisti è stata un vantaggio per gli esponenti dell’AKP, durante la fase di affermazione del proprio partito. Eppure, già alla fine degli anni ’90, il movimento di Gülen è stato accusato di attività anti-secolari e lo stesso leader si è rifugiato negli USA, dove tutt’ora risiede.

Nell’iniziale fase di luna di miele tra gulenisti e sostenitori dell’AKP, le critiche al movimento erano probite, come ha sperimentato sulla sua pelle il giornalista Ahmet Sik, autore del libro Imam Ordusu – L’esercito dell’Imam, un’analisi critica del movimento, bandita prima della pubblicazione. Sembra, quindi, valida l’opinione di Çağaptay: la libertà di criticare i militari, inizialmente celebrata come il raggiungimento di una vera democrazia, vedeva la sostituzione di un’organizzazione intoccabile con un’altra. In questa fase, le incriminazioni dei militari, accusati di far parte di organizzazioni para-statali occulte (Ergenekon, Balyoz, o anche Sledgehammer) che mirano a sovvertire il governo e l’ordine pubblico, portano a un danno dell’immagine pubblica dell’esercito e risultano in un vantaggio per la crescita di popolarità dell’AKP.

La frattura tra gulenisti e AKP è relativamente recente e risale alla pubblicazione, da parte della magistratura e della polizia, di materiale sulla corruzione di membri del governo e familiari, tra cui il figlio del Presidente. In risposta, sono  iniziate le prime operazioni contro gli affiliati al movimento,  con operazioni “contro strutture  dello Stato parallelo”, uno Stato nello Stato con presenze nelle amministrazioni, uffici giudiziari e forze dell’ordine. Le azioni contro il movimento, messo prima fuori legge e, poi, incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche nel 2016, hanno portato al sequestro  e al controllo dei media legati al gruppo, come il quotidiano Zaman. Una mossa logica, quella di privare un movimento dichiarato illegale dei suoi mezzi di comunicazione, ma che ha destato non poche perplessità e dibattiti pubblici, sia per la liceità d’irruzione delle forze dell’ordine in proprietà private che per l’uso spropositato della forza –e gas- verso i manifestanti.

Alla luce dei fatti di questo inverno e, soprattutto, dell’autorizzazione a procedere contro sospetti affiliati all’organizzazione, rilasciata a luglio 2106, era plausibile l’immediata accusa ai sostenitori del movimento di Gülen che, in un’inaspettata intervista alla CNN, ha smentito il suo coinvolgimento, affermando: “Chiunque sia il responsabile, la rivolta è l’ultimo preoccupante esempio di una stabilità che va deteriorandosi in un Paese che prima era promosso in tutto il mondo musulmano come modello di governo democratico e prosperità economica”.

La frattura tra gulenisti e AKP sarebbe uno degli elementi che, secondo un articolo del ricercatore Lars Haugom, del Norwegian Institute for Defense Studies, ha contribuito a una convergenza d’interessi tra AKP e militari, in tema di sicurezza nazionale e, più in particolare, in vista delle operazioni condotte nell’est del Paese contro il PKK.

Lo scorso marzo 2016, il ricercatore norvegese ha evidenziato come, dopo i processi del 2010, le forze armate hanno cercato di riscattare la loro immagine pubblica chiedendo, prima, un nuovo processo per il caso Balyoz, per cui sono stati assolti nel marzo del 2015. In più, ci sarebbe stato un processo di rielaborazione dell’identità e del ruolo delle Forze Armate, sempre meno interessate a intervenire in processi di decision-making, relativmanente agli affari civili, pur conservando una certa autonomia di poteri e interesse all’intervento diretto in caso di minacce dell’unità nazionale. Questo processo di rielaborazione dell’identità sarebbe anche una conseguenza del cambiamento dei membri dell’Esercito, sia a seguito degli arresti che al ricambio generazionale. I militari avrebbero avuto, quindi, ben poca convenienza –o interesse- a effettuare un colpo di Stato né sarebbero mancate le occasioni, durante la lunga stagione elettorale. La posizione di Haugom aiuterebbe a spiegare anche perché, la sera del 15 luglio, parte dell’esercito ha preso la distanza dai golpisti, allineandosi con il governo e rendendo plausibile la responsabilità del gesto da parte di una fazione che, secondo quanto emerso in altri articoli e ipotesi, avrebbe agito, in modo poco organizzato e coordinato, tanto da temporeggiare e mancare uno degli obiettivi più importanti: il Presidente stesso.

Sulla fazione dei militari che ha portato avanti il golpe ci sono però interrogativi: sono davvero legati ai gulenisti, come sembra sostenere anche il giornalista Ahmet Sik, ricordando che il 16 luglio sarebbero iniziati i processi contro alcuni affiliati al movimento, o si tratta di una fazione composta da membri insoddisfatti dalle scelte governative, come i passati tentativi di negoziazione con il PKK? Possibile che queste domande resteranno a lungo senza una riposta certa. Il dato evidente è che ai golpisti è mancato l’appoggio attivo sia da parte degli altri membri dell’esercito che da parte della popolazione.

CONCLUSIONI

Il tentativo di colpo di Stato in Turchia è diventato una sorta di evento mediatico che ha tenuto tutti con il fiato sospeso per circa sei ore, durante le quali ogni possibilità -dalla riuscita al fallimento – sembrava possibile e ogni scenario ipotizzabile.

Il fallimento del golpe, già dalle prime ore della mattina del 16, si è trasformato, per i pro-governativi, in un momento da celebrare, tanto che il Premier Binali Yildirim ha proclamato il 15 luglio come festa della nuova democrazia.

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Ne esce bene Erdoğan, vincitore assoluto su tutti gli altri personaggi legati a questo evento, come militari e gulenisti, anche per la capacità mediatica di coinvolgimento dei suoi sostenitori. Riemerge, con differente dal passato, l’esercito che, dopo gli anni di discredito, è alle prese con un processo di ridefinizione del proprio ruolo nella società turca. Non più visti come eroi a difesa della democrazia, i militari restano i difensori dell’unità nazionale. Quest’impressione sembra confermata dalle reazioni e commenti alle immagini dei militari picchiati dalla folla e dalla polizia: c’è chi esprime solidarietà per loro, affermando che linciaggio di massa non è democrazia e chi fa notare che quei giovani malmenati con la divisa sono gli stessi soldati semplici, i mehmetçik, che poco tempo prima erano considerati i difensori della patria nelle azioni contro il PKK, nell’est del Paese.

A seguito del colpo, sembra ritrovata una certa comunione d’intenti anche tra gli esponenti dei partiti d’opposizione, il partito Repubblicano (CHP), nazionalista (MHP) e progressista-filo curdo (HDP). Tutti si sono proclamati contro il golpe e in difesa della democrazia e della scelta degli elettori. Sarà da vedere se la stessa unità sarà espressa verso l’accettazione del modello presidenziale proposto da Erdogan che, dopo quest’ulteriore vincita, è plausibile aspettarsi a breve. C’è da notare, però, tra le voci fuori dal coro quella l’anziano ex presidente del CHP, Deniz Baykal che definisce il colpo tragicomico, uno show di successo, dando così voce a chi ritiene che gli eventi della serata siano stati organizzati con la connivenza, o almeno una certa consapevolezza, dei servizi segreti e delle autorità.

In sostanza, l’esito della serata ha rassicurato anche chi temeva che un nuovo un golpe avrebbe aperto un vuoto di potere, con instabilità politica ed economica e un possibile scenario di guerra civile, in un territorio  che vede sommarsi le divisioni interne a elementi esterni, come la presenza dell’ISIS nelle vicine regioni e la gestione di almeno tre milioni di profughi siriani, verso i quali c’è un crescente risentimento, almeno da quanto si evince nei social media, per le politiche di discriminazione positiva, la proposta di concessione della cittadinanza, agevolazioni per gli alloggi e istruzione gratuita.

D’altra parte, per gli anti-governativi, il fallimento del golpe è un boccone duro da digerire. Si temono pressioni per l’introduzione del sistema presidenziale, voluto dal Presidente ma non dall’opposizione e repressioni, interventi punitivi e detentivi non solo per le persone coinvolte ma anche solo sospettate.

Sarà da seguire con interesse l’esito della richiesta di estradizione di Gulen alle autorità americane. La richiesta di Erdogan è, in fondo, una richiesta di conferma sulla parternship, e ricorda la richiesta di una precisa presa di posizione già avanzata in merito alle unità di combattimento curde, YPG, considerate alla stregua del PKK. A tale richiesta, il Segretario di Stato degli Stati Uniti, ha diplomaticamente risposto che servono prove evidenti  per poter procede e che le insinuazioni sul un possibile coinvolgimento degli Stati Uniti possono solo danneggiare le relazioni bilaterali tra i due Paesi. D’altra parte, gli americani hanno una cospicua presenza di militari nella base di Incirlik, base per le operazioni aree contro l’Isis in Siria e in Iraq. Una frizione internazionale tra i due Paesi NATO avrebbe conseguenze dirette anche sulle operazioni militari nell’area e sembra dissonante rispetto ai tentativi del governo di riallacciare alleanze internazionali, con Russia e Israele, e regionali, dopo i problemi dell’ultimo anno.

In mezzo ai vari attori politici, nazionali e internazionali, c’è la gente comune, quella che per più di 24 ore ha seguito da casa o scendendo in strada gli eventi, riportando la propria testimonianza sui social e nel mezzo di quelli che si esprimono a favore della reintroduzione della pena di morte per i golpisti (ipotesi ventilata ma c’è da ricordare che la pena di morte è vietata in Turchia)  e gli scettici, quelli che sono a favore della teoria del colpo inscenato, c’è una larga fetta di cittadini preoccupati e stanchi delle continue tensioni sociali, quelli che per dirla semplicemente con un hashtag popolare su twitter, la sera del 16, non vogliono né un colpo di Stato né dittatura (#nedarbiyenedikatorluk).

Infine, c’è da segnalare la preoccupazione espressa dalle associazioni di psicologi e servizi sociali, fortemente preoccupati per l’impatto delle scene di violenza, in strada  e nei social media, sulle giovani generazioni e sui minori.


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