Le sue poesie politiche sono lame taglienti, infiammate dalla rabbia, un grido che diventa collettivo e rappresentativo di un intero popolo
di Francesca Trognoni*
Hanno tracciato la rotta verso la vita
l’hanno intarsiata di corallo, di agata e di giovane forza
hanno innalzato i loro cuori
sui palmi di carbone, di brace e di pietra
E con questi hanno lapidato la bestia del cammino
Questo è il tempo di essere forti, sii forte
La loro voce è rimbombata alle orecchie del mondo
e il suo eco si è dispiegato fino ai confini del mondo
Questo è il tempo di essere forti
E loro sono diventati forti…
E sono morti in piedi
Illuminando il cammino
scintillanti come le stelle
baciando le labbra della vita.
È il 1991 quando Fadwa Tuqan, 74 anni, pubblica sul giornale israeliano Ittihad la poesia dal titolo I martiri dell’intifada, una delle sue poesie più simboliche, più vive e più strazianti.
Un grido collettivo, una lacrima sul volto di ogni madre e di ogni padre palestinese che ha visto i propri figli morire per la propria terra.
Fadwa Tuqan, dal 1987, anno della prima intifada, le vede ogni sera dalla sua finestra, le processioni funebri in memoria dei giovani martiri. Perchè nel 1987 sono i giovani palestinesi e la resistenza dal basso i protagonisti di un conflitto che, come altre volte nel corso di questa lunga storia, muta forma, rimischia le carte in tavola, fa entrare in scena nuovi attori,
Alla fine degli anni Ottanta Fadwa Tuqan è una poetessa conosciuta in tutto il mondo, i suoi versi hanno già infiammato gli animi delle generazioni precedenti. Potremmo definire la Tuqan come un’istituzione non solo per la Palestina ma per l’intero mondo arabo, un punto di riferimento letterario e culturale; la sua opera un pilastro, un patrimonio inestimabile.
La sua vita non è stata semplice, ma piuttosto un viaggio tortuoso, A montanious journey, come recita il titolo della sua autobiografia.
Nata nel 1917 a Nablus in Cisgiordania, presumibilmente il 1 marzo, perchè la data della sua nascita, come affermato dalla Tuqan stessa si è persa nella nebbia degli anni. La minore di sei fratelli e sorelle, è una figlia non voluta, in una famiglia già numerosa ed estremamente tradizionalista. La donna ricorda che durante l’intera infanzia la presenza del padre causava in lei un sentimento di angoscia. La sua autobiografia è ricca di aneddoti legati ai suoi ricordi di bambina e a questo senso di inadeguatezza verso i suoi genitori e verso un microcosmo troppo ancorato ad antiche tradizioni e credenze.
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In questa sorta di prigione o , per meglio dire, harem, in cui, inizialmente, solo la solitudine sembra le dia modo di scappare e liberarsi, una figura spicca sulle altre: suo fratello Ibrahim.
Ibrahim Tuqan è un volto già noto alla letteratura palestinese come grande poeta patriottico e classicista; sarà lui, quando alla giovane Fadwa sarà preclusa la possibilità di proseguire gli studi, il suo unico punto di riferimento, un maestro e un mentore.
E’ grazie a lui se la giovane Tuqan inizia a scrivere le prime poesie poesie e a pubblicarle. Questo forte e fondamentale rapporto con il fratello maggiore, scomparso a Gerusalemme nel 1941, rappresenta la chiave per l’emancipazione da una società arcaica e patriarcale.
Sempre nella sua autobiografia la donna racconta questo passaggio dall’individualità coltivata all’interno della casa, in solitudine, alla scoperta di una collettività nazionalista che sempre più si fa forte in Palestina.
Il 1948 porta con sé la catastrofe, al-Nakba, una tragedia per l’intero popolo palestinese, che vede la propria terra strappata dalle mani, giovani perdere la propria vita, intellettuali in esilio, identità infrante. Ma per Tuqan il 1948 è molto di più: da una parte, la Nakba rivela la necessità di un’azione, di un cambio di rotta nella poesia, dall’altra, la morte del padre, avvenuta nello stesso anno, rappresenta l’uscita definitiva dall’harem. Riguardo ai fatti del 48 la donna scrive: quando il tetto della Palestina crollò, anche il vello cadde dal volto della donna di Nablus.
Quella che è in procinto di nascere è una personalità cosmopolita e combattente, una rappresentante a tutti gli effetti della Resistenza.
Le sue poesie politiche sono lame taglienti, infiammate dalla rabbia, un grido che diventa collettivo e rappresentativo di un intero popolo.
Il suo stile attraversa diverse fasi: dal classicismo della gioventù, influenzato soprattutto dal fratello che vedeva nella poesia classica araba un potente strumento di rivendicazione contro il colonialismo britannico e non solo, ad un approccio, alla fine degli Quaranta, più libero, abbandonando la forma distesa e il ritmo regolare della qasida tradizionale. Questa rottura con il classico è dovuta soprattutto alla lettura di un’altra grande poetessa araba, considerata la madre del verso libero arabo, Nazik al-Malaika. Tuttavia Tuqan non abbandonerà mai definitivamente l’impronta classica, continuando a ritenerla il fondamento di un’identità così legata alla poesia classica stessa. A proposito di questa storica querelle dice: la lotta tra il nuovo e l’antico è eterna; ed è questa necessaria perché la vita si rinnovi. L’immobilismo e la staticità sono illusori, dal momento che tutte le cose tendono a mutare, ad evolversi al di fuori di esse stesse, in virtù del fatto che questa tendenza è principio stesso della vita, dunque la poesia deve anch’essa prenderne coscienza.
Sono di questi anni le prime poesie politiche ma anche quelle d’amore, come la più celebre Non venderò il suo amore, scritta dopo un incontro con Salvatore Quasimodo a Stoccolma nel 1959 in cui il poeta le sussurrò all’orecchio dolci parole:
Io, poeta mio, ho nella mia cara patria
un innamorato che attende il mio ritorno.
È un amato compatriota, del mio paese natio;
e tutte le ricchezze del mondo
le stelle luminose e la luna
non mi faranno mai perdere il suo cuore
o vendere il suo dolce amore.
Perdona, o caro, l’orgoglio del mio cuore
al sentirti bisbigliare dolcemente:
«I tuoi occhi sono profondi e tu sei bella »
Sarebbe ingiusto non ricordare di questa splendida donna anche le liriche d’amore, in cui, al di là di ogni aneddoto biografico, ciò che conta, parlando con Gabrieli, è il palpito appassionato di una creatura assetata di amore.
Ma è, sicuramente, a partire dal 1967, dopo la Guerra dei sei giorni, altro spartiacque nella storia della Palestina del secolo scorso, che i versi della Tuqan si riempiono di ardore, rabbia e ostilità verso l’occupante. Non è un caso se, nel 1959, il generale israeliano Moshè Dayan definisce le sue poesie come un’arma più pericolosa delle azioni dei fedayn. Una delle poesie più rappresentative di questo momento colmo di tensione è, senza dubbio, Sospiri davanti allo sportello dei permessi d’attraversata, pubblicata nel 1969:
Fermarmi sul ponte a mendicare un permesso!/ Ahimè! Mendicare, sì, un permesso di attraversata! Soffocarmi, perdere il fiato, nel caldo del mezzodì/ Sette ore di attesa…/ Ahi! Chi ha paralizzato le gambe al giorno?/ Il caldo mi flagella la fronte/ e il sudore mi colma di sale gli occhi.
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Alienazione, ribellione e non accettazione dello status quo, dominano, dal 1967, l’intera poesia della resistenza palestinese, da Tuqan a Darwish. E’ vero che spesso i poeti della Resistenza palestinese vengono ricordati solo per il loro contributo politico alla lotta contro l’occupazione israeliana, ma è chiaro come Fadwa Tuqan, scomparsa nel 2003, sia stata molto di più. Fadwa Tuqan rappresenta la sintesi di tutte le lotte più importanti del mondo arabo: quella contro l’occupazione occidentale (che, ovviamente, non riguarda solo la Palestina) e quella per l’emancipazione della donna. Nella sua vita è stata in grado di sdoganare credenze e tradizionalismi che la volevano racchiusa in quattro mura, ha dimostrato che una donna può molto di più.
*L’articolo completo può essere letto su La macchina sognante, una rivista di scritture dal mondo. Ogni settimana Frontiere News pubblica un articolo selezionato dalla redazione de La macchina sognante.
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