Slobodan Praljak, ex comandante croato si alza in piedi, e davanti agli occhi del giudice del Tribunale dell’Aja per i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia, Serge Brammertz, in fluente croato dice “Slobodan Praljak non è un criminale di guerra”, poi tira fuori dalla tasca qualcosa, sembra una fiala, apre la bocca e beve.
“Ho bevuto il veleno” – dice Praljak mentre il giudice, gli avvocati, le vittime, i testimoni e il resto del mondo, tutti con gli occhi sgranati, non potevano credere che questa fosse l’ultima scena dell’ultimo processo per i crimini di una guerra. Improvvisamente, l’aula della Corte con il suo giudice è diventata una scena del crimine.
Proprio nel giorno della festa dell’ex Repubblica jugoslava, 29 novembre 2017, il generale Slobodan Praljak, appena condannato a ventidue anni di reclusione per i suoi crimini, insieme con altri cinque comandanti responsabili, si è suicidato in diretta. Un gesto teatrale che di questo criminale di guerra, in passato scrittore e regista, ha fatto un simbolo della lotta per la libertà del suo popolo. Purtroppo, Praljak non ha scontato la pena della giustizia, la pena che soddisferebbe le sue vittime. Anzi, è andato in contro alla morte che di lui ha fatto un eroe nazionale.
Il primo ministro croato Andrej Plenkovic ha definito “ingiusta” la sentenza di condanna che coinvolge anche la dirigenza politica croata, guidata dal defunto presidente Franjo Tudjman, nel conflitto in Bosnia. “È stata invece proprio la Croazia ad aiutare i musulmani bosniaci durante le guerra e a sostenere l’integrità della Bosnia-Erzegovina”, ha affermato Plenkovic, annunciando l’intenzione del governo di impugnare legalmente la sentenza. Mentre, il presidente della Croazia, Kolinda Grabar-Kitarović ha subito interrotto la sua visita di Stato in Islanda annunciando un rientro prematuro in Croazia.
Invece la Serbia si sente forse per la prima volta soddisfatta con la condanna di sei generali croati. Negli ultimi 24 anni (quanto è durato il processo per i crimini della guerra nell’ex Jugoslavia), sono stati soprattutto i generali serbi ad ascoltare il giudizio della corte. L’ultimo fu il generale Ratko Mladić, condannato all’ergastolo per il genocidio di Srebrenica.
In Bosnia, l’opinione pubblica ed anche quella politica è divisa, come è diviso lo stesso paese. Nella città di Bugojno dove ancora oggi vivono molti croati, e dove sono stati uccisi quarantacinque civili (musulmani bosniaci) tra 19 e 82 anni, sotto il comando di Praljak, ci sono ancora quelli che pensano che lui sia un eroe. D’altra parte, i cittadini bosniaci pensano che la condanna per i sei generali avrebbe dovuto essere duplicata.
Nella parte croata della città di Mostar, il giorno dopo il suicidio, numerose persone si sono radunate spontaneamente nella piazza centrale per rendere omaggio al generale. La città simbolo e una delle città più multietniche in Bosnia fu distrutta durante l’assedio croato. Sotto il comando di sei generali sono stati condannati diecimila non croati, soprattutto musulmani; mentre serbi e rom sono stati imprigionati, stuprati e maltrattati.
Il vecchio ponte di Mostar (del XVI secolo) fu bombardato nel 1993 e la sua pietra è diventata un simbolo. Oggi il vecchio ponte di Mostar è nuovo, ed è stato rifatto in base al disegno originale. L’ordine di farlo saltare in aria lo diede proprio Slobodan Praljak, l’uomo che ora ha avvelenato anche le sue vittime.
Profilo dell'autore
- Corrispondente dall'Italia per vari media della Serbia degli altri paesi dell'ex Jugoslavia, vive in Italia dal 2006 e da allora ha collaborato con molte riviste di geopolitica italiane e internazionali. Attualmente scrive per Al Jazeera Balkans e per la versione in serbo della BBC. È membro dell'International Federation of Journalist e dal marzo 2020 è il Consigliere Delegato dell'Associazione Stampa Estera Milano
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