Il primo uomo a circumnavigare il mondo è stato uno schiavo

La storia del malese Enrique, acquistato da Magellano quando aveva 14 anni come schiavo durante l’assedio di Malacca, e infine diventato suo interprete. Secondo molti storici è stato il primo uomo a circumnavigare il mondo tornando al suo punto di partenza.

Testo di Martino Pedrazzini; illustrazioni di Gabriele Vergani

Ne L’armata delle molucche (Festina Lente Edizioni, 2019), Martino Pedrazzini riprende le incredibili vicende della flotta di cinque navi che, sotto il comando di Ferdinando Magellano, nel 1519 prese il mare da Siviglia alla ricerca di una nuova rotta per le Isole delle Spezie e compì, dopo tre anni di peripezie, il primo viaggio attorno al mondo.

Il malese Enrique, schiavo di Magellano e – per molti storici – primo uomo a circumnavigare il mondo.

Il romanzo è rigorosamente fedele alle annotazioni di Antonio Pigafetta, lo scrittore che ha partecipato alla prima circumnavigazione del globo e l’ha completata dopo l’uccisione del capitano Ferdinando Magellano.

Su concessione dell’Editore, pubblichiamo alcuni estratti del libro che raccontano il personaggio, poco noto, di Enrique di Malacca. Enrique accompagnò Magellano in tutti i suoi viaggi, incluso quello che portò alla circumnavigazione del mondo tra il 1519 e il 1521.

È documentato che Enrique abbia viaggiato con Magellano da Malacca a Cebu in due segmenti: da Malacca al Portogallo nel 1511 e dalla Spagna a Cebu nel 1519-1521. La distanza tra Cebu e Malacca è di 2500 km (circa 20 gradi di longitudine). È la distanza necessaria a completare la circumnavigazione. 

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Incontri e scontri 

In questo estratto del libro, l’autore immagina il momento in cui Pigafetta si rende conto che lo schiavo Enrique, e non il padrone Magellano, è stato il primo uomo a fare il giro del mondo.

Il capitano generale aveva chiamato al suo fianco i suoi due interpreti, così Enrique, non del tutto convinto, provò a salutare gli ospiti nella lingua che aveva parlato fin da piccolo, prima di essere catturato e venduto come schiavo agli europei. Fino a quel momento le conoscenze di Enrique non si erano mai dimostrate utili: la sua lingua non aveva nulla a che fare con quella degli indigeni di Rio de Janerio e neppure con quella dei patagoni, ed era sempre Pigafetta che con il suo fare spigliato e la sua sagace curiosità subentrava come traduttore.

Tuttavia il primo approccio era sempre spettato allo schiavo di Magellano e così avvenne anche in questa occasione. La risposta immediata dell’indigeno colse di sorpresa Enrique: parlavano la stessa lingua! Erano passati ormai diversi anni da quando aveva sentito qualcun altro emettere suoni così familiari e il suo cuore si riempì immediatamente di commozione. Anche Magellano e Pigafetta rimasero sorpresi: davvero ce l’avevano fatta ed erano giunti a destinazione? Non potevano sperare di meglio! Dopo un primo momento di entusiasmo in cui si rivolse amichevolmente allo sconosciuto, Enrique si ricompose e presentò l’ammiraglio con i dovuti onori, spiegò il motivo della spedizione e chiese le indicazioni per raggiungere le Molucche.

Pigafetta ascoltava ammirato il dialogo cantilenante. Durante il viaggio si era fatto insegnare qualche termine da Enrique, ma quei due parlavano troppo rapidamente e non riusciva a capire una sola parola di quello che si stavano dicendo. Con in sottofondo il suono della lingua locale, la sua mente prese il largo e si accavallarono i pensieri: le Isole delle Spezie erano a portata di mano! Ricchezze smisurate li attendevano e sarebbero tornati a Siviglia da eroi! Non erano certo sulla via del ritorno, ma una volta trovate le Molucche, la rotta era sufficientemente conosciuta e il ritorno a casa sarebbe stato agevole. Ne avevano passate tante, tante vite erano state perdute e con esse due navi. Pensò al povero patagone, il primo della sua gente a solcare il Pacifico così a lungo, il primo a convertirsi al cristianesimo, il primo a parlare qualche parola di spagnolo e di italiano.

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Così pensando, gli occhi di Pigafetta incrociarono quelli di Enrique e d’improvviso si rese conto che si trovava di fronte al primo uomo che aveva circumnavigato l’intero globo! Chissà se anche Enrique aveva pensato a questa cosa e chissà se aveva compreso questo fatto straordinario! Tuttavia Antonio non disse una parola, sapeva di dover mantenere il riserbo, non poteva certo affermare che il primo uomo ad aver compiuto un giro del mondo era uno schiavo! Nessuno avrebbe accettato una tale verità. Decise che, una volta tornato a casa, si sarebbe attenuto ad una versione più accettabile: Ferdinando Magellano, colui che aveva immaginato l’impresa, lui sarebbe passato alla storia, lui sarebbe stato conosciuto come il primo uomo ad attraversare lo stretto patagonico, il primo uomo a sopravvivere al Pacifico, lui e solo lui sarebbe stato riconosciuto come il primo uomo che ha circumnavigato l’intero globo. Avrebbe scritto questo, non c’era dubbio! Non voleva certo essere accusato di tradimento, ma avrebbe tenuto per sé in eterno la consapevolezza che le cose erano andate in maniera differente. L’incontro fu proficuo, tanto che lo sparuto equipaggio di isolani si mise in testa alla flotta per guidare gli europei in quell’ignoto mare. Dopo aver doppiato il capo settentrionale dell’isola virarono decisamente a sud, mantenendo la rotta per un paio di giorni, tenendosi al largo di un grande ammasso di terra visibile a est.


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Le isole delle spezie 

Nei seguenti due estratti Pigafetta, dopo la morte di Magellano, ripensa in maniera struggente al suo capitano e allo schiavo Enrique.

«È morto!». Queste erano le uniche parole che riusciva a dire e a pensare lo smarrito Antonio Pigafetta. Questo aveva riferito ai suoi compagni sulla Trinidad, una volta che la scialuppa li aveva riportati a bordo: «È morto!». Erano passati alcuni giorni e ancora quelle due parole gli risuonavano nella testa e non poteva pensare ad altro. Tornavano alla mente le grida disumane degli assassini di Magellano, l’immagine dell’invincibile condottiero piegato dalla furia cieca degli indigeni e il senso di abbandono, di paura e di incertezza. «Ma è morto!», era quello che Enrique aveva gridato innervosito a Duarte in un momento di concitazione.

Pigafetta sapeva che la morte di Magellano avrebbe dovuto rendere lo schiavo un uomo libero, ma quello che ormai era diventato il nuovo capitano generale non era assolutamente dello stesso avviso. Enrique venne fatto frustare, messo in catene e lasciato sul ponte per due interi giorni senza cibo. Duarte aveva il comando e non voleva perdere l’unico in grado di tradurre facilmente le parole di quei selvaggi, che popolavano quelle isole così fastidiosamente povere di spezie. Il dolore, la morte e la tristezza riempivano il cuore del giovane vicentino rannicchiato in un angolo, col viso rigato di lacrime e il braccio ferito ancora dolorante. Erano ormeggiati nuovamente a Cebu da qualche giorno e lui non aveva mostrato il minimo interesse a mettere piede su quelle splendide spiagge che tanto lo avevano estasiato nelle settimane precedenti. Quella mattina aveva pure rifiutato l’invito di Humabon ad un banchetto in onore del defunto ammiraglio; preferiva crogiolarsi nel dolore e non aver a che fare con nessuno.

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Aveva visto Duarte e Serrano salire su una lancia, ben vestiti e imbellettati, accompagnati da alcuni servitori e dai loro uomini di fiducia. Anche Valderrama e Andres de San Martin si erano diretti a terra: il prete nelle sue candide vesti da cerimonia ripeteva tra sé l’accorato discorso per le esequie di Ferdinando Magellano e l’astronomo chiacchierava con alcuni marinai e mozzi che non vedevano l’ora di riempirsi lo stomaco dei deliziosi piatti offerti dagli uomini e dalle donne di Cebu. Giunse l’ora del pranzo e sulla Trinidad risuonò il consueto rintocco della campana che chiamava a mensa l’equipaggio. Pigafetta fu risvegliato dal suo torpore da Albo, il pilota taciturno che era sempre stato sulle sue e non si era fatto problemi a rifiutare l’invito di Humabon. Gettò uno sguardo verso la spiaggia e vide una scialuppa con due soli uomini dirigersi di fretta verso l’ammiraglia. Tirò dritto verso le scale che portavano sottocoperta, ma fu bloccato da Albo che si affacciò dalla murata. Si concentrarono sui due uomini trafelati in quel piccolo guscio di legno: non riuscivano a riconoscerli.

Un’improvvisa folata di vento portò alle orecchie di Antonio lontani rumori di tafferugli e grida. Pensò subito ad una suggestione della mente che riportava i pensieri alla morte di Magellano, ma altre grida, la fretta dei due sulla scialuppa e alcuni uomini che sbucarono di corsa dalla foresta lo convinsero che qualcosa a terra era andato storto. Sulla scialuppa Elcano e Chindurza si dannavano l’anima per raggiungere più in fretta possibile l’ammiraglia, non gridarono nulla e neppure fecero gesti, remavano come se la morte li stesse rincorrendo. Sulla spiaggia gli uomini fuoriusciti di corsa dalla foresta furono accerchiati da una moltitudine di indigeni armati di archi e lance e davanti agli occhi increduli di Pigafetta si stava consumando una nuova strage. Rimase attonito, paralizzato a guardare quelle scene, impotente di fronte a tanta violenza. Albo fece chiamare immediatamente alcuni marinai, perché aiutassero i due baschi a salire a bordo. In quel momento Elcano, che per lungo tempo aveva cercato di riabilitarsi dopo aver sostenuto l’ammutinamento di Quesada, era l’ufficiale più alto in grado sulla Trinidad.

Non perse tempo, chiamò i marinai ai loro posti e diede l’ordine di salpare il più in fretta possibile. «Signore, ma gli altri sulla spiaggia?», chiese Pigafetta. «Sono tutti morti!», sentenziò Elcano, “siamo stati traditi da Humabon e dai suoi uomini. Prima hanno portato da mangiare e poi hanno iniziato ad uccidere i nostri a partire da Duarte e Serrano, colpendoli alle spalle come dei codardi». «Noi eravamo di guardia al limitare del bosco e quando la situazione è degenerata siamo fuggiti. Non c’era più nulla da fare», aggiunse Chindurza, quasi a volersi giustificare. «Ma potrebbero esserci altri da salvare!». «Ho visto con i miei occhi Humabon trafiggere padre Valderrama e i selvaggi armati erano centinaia. Ci volevano far fuori tutti! Hanno ucciso perfino le nostre guide di Limasawa, perché non riferissero a nessuno di quel tradimento». «Enrique?». «L’ho perso di vista quasi subito, ma sospetto che abbia tramato tutto lui. Sai bene quanto odio e rancore provasse per Duarte negli ultimi giorni». Pigafetta ammutolì. Tornò a guardare la spiaggia, dove ormai non c’era più nessuno che correva ed erano rimasti solo alcuni corpi esanimi riversi a terra. La nuova folata di vento che arrivò questa volta non aveva portato altro che un silenzio funereo, privo di violenza e privo di vita. A terra il combattimento era finito e non c’erano più speranze per i loro compagni. Le tre navi barcollanti al largo ripresero abbrivio, Elcano aveva dato ordini chiari: dovevano abbandonare quelle acque, trovare un luogo riparato e riorganizzarsi. L’equipaggio era notevolmente ridotto, nessuno sapeva esattamente quanti uomini avessero perso quel giorno, ma non era quello il momento di mettersi a contare. I giorni successivi alla morte di Magellano e alla strage di Cebu, furono difficili e carichi di tensione.

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[…]

 

Pigafetta nel frattempo era stato nominato interprete ufficiale e in questo modo, con suo grande sollievo, ottenne una riduzione dei turni di lavoro. Nei momenti di pausa poté tornare a scrivere e ad appuntare le cose che colpivano la sua attenzione, ma gli ci volle un po’ di tempo per riprendere l’abitudine persa in quelle settimane concitate. Poté così riflettere sulla morte di Magellano e su ciò che l’aveva portato a sfidare l’intera popolazione di Mactan. Si chiedeva come fosse stato possibile che l’uomo, che lui aveva preso come guida e che tanto aveva ammirato, fosse caduto in una maniera così poco eroica e ingenua.

Iniziò a capire gli errori che avevano commesso loro, gli europei venuti dall’altra parte del mondo. Pensò a Enrique, al primo uomo ad aver compiuto un intero giro del mondo, pensò ai soprusi che aveva dovuto sopportare in tutta la sua vita e pensò alla rabbia che poteva aver provato nel vedersi negata la libertà dopo la morte del suo padrone. Enrique era sempre stato un uomo buono, rude nei modi, ma d’animo gentile, forse l’idea dell’imboscata durante il banchetto non era stata sua, forse aveva solo sfruttato l’occasione per scappare e tornare a casa, forse si era opposto o forse sapeva e aveva lasciato che gli uomini di Humabon massacrassero gli europei.

Questi erano i pensieri che ronzavano nella testa del vicentino, rifletteva e scriveva. Scrivere lo aiutava a mettere in ordine le idee e le emozioni e così si trovò ad appuntarsi i nomi degli amici persi lungo tutto il viaggio con piccole tristi note per ciascuno di loro. La malinconia venne spazzata via dalle tiepide giornate di sole che accompagnarono le due navi superstiti. I paesaggi stupendi e la natura rigogliosa erano uno spettacolo per gli occhi e una cura per l’anima e a molti dell’equipaggio stava tornando il sorriso. La Trinidad e la Victoria zigzagarono per giorni tra folti gruppi di piccole isole, navigando verso sud e poi a ovest, senza incontrare anima viva, con Elcano che cercava di condurre le due navi senza avere la minima idea di quale rotta seguire per giungere alle Molucche.

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Profilo dell'autore

Martino Pedrazzini
Martino Pedrazzini
Sono nato e cresciuto a Milano, dove mi sono laureato in Storia. Ho insegnato nelle scuole medie e nelle scuole elementari e ho scritto “L’Armata delle Molucche” un romanzo storico illustrato sulla prima circumnavigazione del mondo. Il mondo e l’umanità sono il mio interesse, per questo sono da anni impegnato in ambito sociale, nella ricerca di strade per contrastare le oppressioni: in una scuola popolare di Milano, con migranti, ragazzi e giovani delle superiori e dell’università; in campi di lavoro ed esperienze di volontariato internazionale (in Libano, Turchia e Iraq); nella promozione di pratiche ecologiche e di difesa dell’ambiente a partire dai bambini.

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