Dopo 220 anni dalla nascita dell’ordine di don Bosco, a Roma i salesiani, con l’aiuto delle Missionarie di Cristo Risorto, continuano a lavorare con i bisognosi. Che oggi sono i giovani migranti dimenticati dallo Stato
di Luca La Gamma
C’è un cuore che batte nel cuore di Roma, cantava Antonello Venditti. C’è anche un altro cuore che batte, nel cuore di Roma, più precisamente in via Marsala, 42, dietro la stazione Termini. Ed è quello dei salesiani di don Bosco, ordine nato nel 1800 a Torino e diffusosi su tutto il territorio italiano, che opera in favore dei minori meno fortunati fin dal principio, ossia da quando don Giovanni Bosco iniziò a seguire minori nelle carceri per dargli un aiuto socio-educativo. È cambiata nel tempo l’opera dei salesiani, ed è cambiata anche l’attività perpetuata nelle proprie strutture, mantenendo però quel grado di attenzione nei confronti dei giovani meno fortunati.
Sono stato in visita presso la struttura del Sacro Cuore, la prima struttura salesiana sorta a Roma, dove lo stesso don Giovanni Bosco visse l’ultimo periodo della sua vita. Qui mi hanno accolto Rinaldo Ponticiello – un volontario della struttura, e suor Mercedes dell’Ordine delle Missionarie di Cristo Risorto, congregazione che coopera con i salesiani in favore dei rifugiati e dei giovani. Attualmente nella struttura, infatti, oltre ai salesiani di don Bosco ci sono quattro suore sudamericane della congregazione delle Missionarie di Cristo Risorto, che svolgono volontariato in favore dei rifugiati e sono molto attive sul territorio. Giovani e rifugiati, questo il mix della struttura presente in via Marsala, vero e proprio centro di ritrovo per tante persone che hanno bisogno di un aiuto.
Da don Giovanni Bosco ai giorni d’oggi, come si è evoluta la missione dei salesiani in favore dei giovani?
La congregazione salesiana nasce nel 1800 a Torino. Don Giovanni Bosco è un giovane prete che inizia a prendersi cura dei giovani ragazzi. È dopo un’esperienza in carcere, in cui aiuta minorenni, che decide di operare in favore di questi prima che finiscano in case famiglia, in strada o – peggio ancora – in prigione. Così inizia l’opera di don Bosco e successivamente quella dei salesiani. Non solo Torino, sorgono nuove strutture in tutta Italia che nei decenni successivi sono diventate un vero punto di ritrovo per molti ragazzi, dove tutt’oggi hanno la possibilità di fare corsi di formazione, studiare, formarsi e integrarsi nel tessuto societario. È molto interessante la storia di don Bosco, che credeva nei convitti per i ragazzi e il suo credo era orientato a un sistema educativo preventivo e non punitivo. I primi salesiani nati sono proprio quei minorenni che lui stesso aveva iniziato ad aiutare. Oggi l’opera salesiana si è diffusa in diverse parti del mondo. Sono sorti centri di formazione professionale e centri di ritrovo in cui i ragazzi possono trascorrere del tempo libero in maniera sana come scuole professionali, oratori e case famiglia.
Come nasce il centro di via Marsala?
Fu lo stesso don Bosco nel 1880 – già anziano – a costruire la Basilica del Sacro Cuore nel rione Castro Pretorio, con l’ausilio di benefattori e di Papa Pio IX, che volle fortemente questa Basilica. Qui nasce la prima casa salesiana a Roma, dove lo stesso don Bosco ha vissuto l’ultimo periodo della sua vita e dove ha celebrato la sua ultima messa. È qui che ha avuto la possibilità di vedere il quadro completo della sua vita, qui ha preso consapevolezza del suo grande operato.
In questa struttura prima sorgevano una scuola e un centro diurno del Centro Giovanni Don Bosco, che nel 2009 si è trasferito al Borgo Don Bosco. Nel 2009 subentriamo noi dell’Ordine delle Missionarie di Cristo Risorto, coadiuvate da volontari e dai salesiani stessi, con cui portiamo avanti la missione di aiutare i giovani e i più poveri. Ed è nei giovani rifugiati maggiorenni, con cui già operavamo in strada, che abbiamo concentrato la nostra opera.
Come mai proprio i giovani rifugiati maggiorenni?
Perché sono la categoria meno protetta, non inserita nei percorsi di studio e nelle scuole. Spesso sono soli, senza famiglia e con una cultura molto lontana dalla nostra. Per questi motivi cerchiamo di concentrare principalmente la nostra azione con loro. La prima intuizione è stata offrire loro corsi di formazione professionale. Questo percorso inizia con un grande rilevamento dei dati, siamo andati per strada e nei centri di accoglienza, abbiamo realizzato 200 questionari per capire cosa avrebbero voluto studiare loro.
Abbiamo notato, parlando con questi ragazzi, che l’italiano era una barriera importante per la loro integrazione, quindi l’insegnamento dell’italiano è stato il primo corso di formazione su cui ci siamo focalizzati. Tutte le attività successive sono sorte in modo spontaneo, senza una premeditazione dietro, ma solo con la prospettiva di provare a rispondere alle loro esigenze.
Non solo la scuola di italiano. Quali altre attività sono sorte?
Dopo la scuola di italiano, realizzata già nel 2009, ci siamo focalizzati su attività di integrazione e aggregazione di questi ragazzi. Abbiamo puntato sull’integrazione nella società. Abbiamo iniziato a ideare gite, passeggiate in montagna, in cui venivano coinvolti rifugiati e ragazzi italiani. È nato il cineforum, altri corsi di formazione come il corso per prendere la patente e il corso di informatica, oltre i laboratori di teatro, arte e fotografia, per citarne alcuni.
Il secondo grande ostacolo è rappresentato dal lavoro. Questi ragazzi sono alla ricerca continua di un lavoro, che favorirebbe anche la loro integrazione nel tessuto sociale. Quindi abbiamo iniziato a ideare degli sportelli di orientamento per aiutarli a cercarne uno. Li aiutiamo, ad esempio, a compilare il curriculum vitae.
Abbiamo sviluppato davvero molte attività negli anni. Dopo anni di singole attività svolte sul territorio, nel 2014 abbiamo deciso di ideare uno spazio dove i ragazzi potessero stare senza svolgere precise attività, per tutelarli dalla strada: sorge così la sala giovani, luogo dove il pomeriggio i rifugiati possono trascorrere il loro tempo. Questa è una delle iniziative più importanti che abbiamo, lì abbiamo strumenti musicali, un angolo caffè, tavoli dove si studia italiano in modo informale. Li accogliamo, capiamo chi sono e cosa stanno cercando e li indirizziamo verso ciò di cui necessitano. Crediamo molto anche nei momenti informali di gioco e sport, dove i ragazzi possono divertirsi e trascorrere tempo in compagnia.
Come riuscite a finanziare questi corsi?
Tramite bandi e donazioni. Purtroppo lo Stato non finanzia queste attività, che sono costosissime. Tutti i nostri corsi vengono svolti di giorno. Per noi è importante trovare i fondi per auto finanziarci i laboratori e i corsi, utili a loro per trovare la propria strada e provare a entrare nel mondo del lavoro.
Con quali altre realtà collaborate?
Abbiamo un progetto in sinergia con altre realtà salesiane e non. Stiamo offrendo anche corsi corti di formazione professionale di 80-100 ore. Adesso, per esempio, partiranno corsi brevi di giardinaggio, sala bar, pasticceria e panificazione. Proviamo a offrire loro una vasta gamma di scelta. Siamo riusciti nel tempo a ideare anche dei tirocini in collaborazione con realtà locali. Abbiamo una rete sociale e di contatti che ci aiutano: su tutti Casa Scalabrini 634, il Centro Astalli e la Caritas.
Andate anche in strada ad aiutare questi rifugiati?
Andiamo anche in strada, dove aiutiamo specificatamente i rifugiati. Il venerdì sera offriamo un servizio di catering per chi vive in strada, portiamo loro da mangiare. Il giovedì pomeriggio, invece, diamo la possibilità a chi vive in strada di vivere questa realtà. Ma in generale tutti i pomeriggi, chiunque vive in strada – rifugiati e non, può venire qui in via Marsala, 42 a trovare un po’ di compagnia o aiuto.
Come informate i rifugiati che arrivano a Roma che qui hanno un posto dove poter chiedere aiuto?
Funziona fin troppo il passa parola tra i rifugiati stessi, ma non solo. Ci aiutiamo con le altre realtà che operano sul territorio, come la già citata Casa Scalabrini 634, il Centro Astalli e la Caritas.
Parliamo di numeri, quanti migranti aiutate durante l’anno?
Nel 2019 abbiamo tenuto un registro di prima accoglienza. Dati alla mano, abbiamo accolto 700 ragazzi circa, ovviamente tutti maggiorenni per i motivi che ti ho già detto. La maggior parte di questi sono musulmani, ma abbiamo favorito anche incontri interreligiosi per favorire scambio di idee e confronto.
Con quali comunità vi trovate ad interagire maggiormente?
A seconda delle ondate migratorie, sicuramente maggiormente con ragazzi africani provenienti dalle zone d’Africa che si trovano sopra la Repubblica Democratica del Congo. Tra questi la maggior parte sono rifugiati politici. Ma non mancano anche asiatici e latinoamericani, che ci trovano grazie al passaparola.
Il nostro scopo principale sono i rifugiati politici richiedenti asilo, ma non mancano anche italiani che non hanno famiglia. Abbiamo anche molti volontari, italiani, che vivono questa comunità e ci aiutano in strada.
Funziona anche la cooperazione con gli altri centri salesiani in Italia, immagino.
Sì, ma in realtà questa cosa è meno immediata. Facendo parte di una rete mondiale, mi è capitato e capita di parlare con i salesiani che svolgono attività nel mondo. La rete salesiana è disponibile e molto ampia. Cooperiamo soprattutto quando c’è da accogliere qualcuno che viene a Roma da altre parti per studio o lavoro. Ad esempio recentemente abbiamo ricevuto delle ragazze dalla Slovacchia che sono venute qui per studiare. Vengono accolte nella Casa, dove possono trascorrere un periodo della loro vita. Questo è un progetto in favore dei ragazzi tra i 18 e i 30 anni italiani e non. Qui possono venire a vivere giovani studenti o lavoratori che per un periodo si trovano a Roma.
Com’è possibile fare volontariato?
Quattro volte l’anno facciamo la formazione volontari, sono tre incontri molto semplici di presentazione delle attività. È possibile collaborare con noi semplicemente presentandosi e facendosi conoscere. Chiunque arriva in questa Casa viene accolto e cerchiamo di capire come aiutarlo, che sia un rifugiato, un bisognoso o un volontario. Durante la formazione dei volontari presentiamo le tre aree su cui operiamo: ospedale, strada e rifugiati. È poi il volontario a scegliere il settore in cui cimentarsi.
Una caratteristica bella e importante è proprio quella della possibilità che offriamo di fare volontariato anche a chi – a sua volta – è stato aiutato. Ci sono molti ragazzi rifugiati che, oramai integrati e autonomi, si mettono a disposizione della Casa e fanno volontariato. Questa è una cosa molto bella, tra i nostri volontari abbiamo ragazzi rifugiati che aiutano a integrare i migranti richiedenti asilo politico che arrivano qui. Questo è il senso di comunità che noi perpetuiamo dal 2009 e nel quale ci riconosciamo.
Quanto è importante oggi portare avanti la missione di don Giovanni Bosco nel mondo?
Secondo me molto. È una sfida grande in cui noi non sempre ci sentiamo preparati. Penso che educare giovani sia una sfida affascinante ma impegnativa, fin dai tempi di Platone e Socrate. La sfida educativa è una sfida grande cui noi adulti – educatori e genitori – fatichiamo a rispondere. Credo che un sistema educativo e uno spazio dove crescere siano basi essenziali per aiutare i giovani ragazzi nella crescita. I salesiani hanno un metodo molto importante e funzionale, ad esempio: giovane educa giovane. Ogni giovane che cresce in questa realtà aiuta un altro giovane e lo accompagna in una parte di vita.
Profilo dell'autore
- La sua formazione giornalistica inizia a 20 anni quando avvia una serie di collaborazioni con piccole testate romane occupandosi di sport e sociale. A 25 anni diviene giornalista pubblicista e a 26 decide di partire per la Spagna, tappa fondamentale per la sua crescita personale. Laurea in Lingue e letterature moderne alla Sapienza di Roma e in Editoria e giornalismo alla Lumsa di Roma. Attualmente consulente per la comunicazione in INPS. Viaggiatore, sognatore e amante della vita in tutte le sue sfumature, si identifica in Frontiere News perché è la voce fuori dal coro che racconta quelle storie che non vengono prese in considerazione dall’élite giornalistica.
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