“Egregio Signor Maestro, mio figlio non può iscriversi per i Balilla. Siamo poveri e non abbiamo bisogno di odio“. La lettera, scritta nel 1930 da un papà al maestro di suo figlio, consegna alla memoria nazionale il coraggio di chi ha saputo opporsi all’indottrinamento dell’organizzazione della gioventù fascista.
Era l’autunno del 1930, e l’Italia viveva sotto il pieno controllo del regime fascista. Il potere di Mussolini si estendeva in ogni angolo della società, penetrando non solo le istituzioni, ma anche le vite quotidiane delle famiglie. Tra le imposizioni del regime, l’iscrizione dei bambini ai Balilla era più di una semplice formalità: rappresentava un passo obbligato per trasformare i giovani in strumenti dell’ideologia fascista, inculcando obbedienza, militarismo e il culto del duce fin dalla tenera età.
In questo contesto, Giovanni Magnani, un padre di Cavriago, scrisse al maestro di suo figlio una lettera breve, ma incredibilmente incisiva, per dichiarare che il ragazzo non sarebbe entrato nei Balilla. Non c’erano spiegazioni elaborate, solo poche parole chiare e definitive, un no secco che racchiudeva un’intera visione del mondo: “Siamo poveri e non abbiamo bisogno di odio” scriveva Magnani. Parole semplici, che però contengono una condanna implicita del sistema di valori che il fascismo cercava di inculcare ai ragazzi. C’è un rifiuto morale, la rivendicazione di una dignità che il regime pretendeva di annullare, e la volontà di proteggere l’innocenza del figlio da un futuro di fanatismo e violenza.
I Balilla, piccoli soldati del fascismo
L’Opera Nazionale Balilla, istituita nel 1926, prendeva il nome dal genovese Giovan Battista Perasso, soprannominato “Balilla”. Balilla, secondo la tradizione del sestiere di Portoria, nel 1746 (a soli 11 anni) avrebbe lanciato una pietra contro le truppe austro-piemontesi che occupavano la città, dando inizio alla rivolta popolare contro gli sgherri dell’impero asburgico. Questo nome simboleggiava l’idealizzazione della ribellione contro l’oppressore, ironicamente rivisitata dal regime fascista per forgiare la gioventù all’obbedienza e al combattimento.
Composta da ragazzi e ragazze divisi in varie fasce d’età, l’organizzazione mirava a indottrinarli fin dalla più tenera età, preparandoli a diventare i futuri difensori della patria e fedeli sostenitori del fascismo. Attraverso un rigoroso programma di addestramento fisico, attività paramilitari e lezioni di ideologia, i Balilla venivano plasmati secondo i principi del regime. “Libro e moschetto, fascista perfetto”, si diceva allora.
Questa formazione celava aspetti più sinistri. La militarizzazione della gioventù, la soppressione del pensiero critico e l’esaltazione dell’aggressività come valore portavano a una normalizzazione della violenza e dell’intolleranza. Gli episodi di bullismo e costrizione tra pari non erano rari, essendo considerati manifestazioni di forza e lealtà al fascismo. La pressione a conformarsi e l’esclusione sociale di chi si opponeva erano tra le conseguenze più negative di questa organizzazione.
La scoperta di questa lettera nel 2019, avvenuta quasi un secolo dopo dall’autrice di Rai Storia Lucrezia Lo Bianco, ci ricorda che la resistenza al fascismo non è stata fatta solo da grandi nomi e gesti eclatanti. È stata anche, e forse soprattutto, una questione di piccoli atti di coraggio quotidiano. Non sappiamo cosa accadde al padre e al figlio dopo quella lettera, ma il suo contenuto è straordinario nel riportare alla luce la forza di chi ha saputo dire “no”.
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