L’Asia e il nuovo nazionalismo in salsa agrodolce

La radicalizzazione dei conflitti per le isole contese tra i vari paesi asiatici si fa sempre più marcata, tanto da catapultare la situazione politica indietro di decenni; dopo anni e anni di collaborazione infatti i maggiori stati dell’Asia riportano al potere partiti politici nazionalisti e favorevoli ad una politica estera intransigente con i Paesi confinanti. Questione a parte è quella cinese. Con il congresso del PCC infatti si è conclusa un’epoca per la Cina, lontana ormai dalla Rivoluzione maoista e sempre più fedele ad un libero mercato sfrenato e senza regole. Il cambio prevedibile e pilotato delle più alte cariche della nomenclatura di partito ha confermato un’approccio diplomatico, questo per non turbare la suscettibilità dei propri confinanti, ma allo stesso tempo autoritario. La Cina cioè non indietreggerà di un millimetro i suoi confini, ma anzi combatterà sempre più fermamente per consolidare la propria leadership non solo asiatica ma mondiale.

Altra storia ma sempre in linea con la radicalizzazione di un conflitto che con il passare del tempo sta divenendo ingestibile per i diretti interessati ma anche soprattutto per la comunità internazionale, sono le elezioni vinte da partiti di ‘destra’ e ‘nazionalisti’ in Giappone come in Corea del Sud, i quali hanno vinto in maniera schiacciante in patria facendo leva su quel sentimento di rivalsa e competizione orientale che la ‘pacificazione’ degli ultimi decenni aveva ben mascherato e per certi versi eliminato.

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Il 19 Dicembre infatti Park Geun-Hye, leader del ‘Gran National Party’, partito conservtore corano, ha vinto le elezioni in Corea del Sud. Particolarità non da poco della nuova leader sud coreana è la stretta parentela con colui che nel 1961 con un colpo di Stato prese e gestì con il pugno di ferro il paese fino al 1979. Figlia del dittatore Park Chung-Hee, Park Geun-Hye è la prima donna alla guida del paese. Se ciò può confortare le migliaia di donne coreane ancora disfrattate dalla società, agiterà sicuramente i suoi vicini giapponesi e cinesi sempre più attenti alle proprie isole e ai propri mari.

Il 16 Dicembre invece il Giappone è letterarmente ritornato indietro al 2009, quando dopo quarant’anni il partito liberal-democratico era stato sconfitto a favore del partito democratico. Il popolo giapponese infatti in barba a Fukushima, spaventati più che altro da un’economia sempre più instabile, riportano al governo Abe, il cosiddetto ‘falco’, e il suo PLD, coloro cioè che negli ultimi decenni sono stati i più grandi promotori dell’industria dell’atomo. Più che del disastro nucleare del Marzo 2011 Abe ha concentrato la sua campagna elettorale su tematiche economiche e politiche ferme per quanto riguarda la Politica estera. Ha lasciato intendere che affronterà la Cina in modo più energico, se fosse necessario rafforzando l’alleanza con gli Stati Uniti soprattutto a livello tecnico, puntanto cioè sull’aiuto logistico-militare dei vecchi amici americani.

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Quest’ultima elezione giapponese preoccupa sensibilmente Pechino e Seul, così come l’elezione della figlia dell’ex-dittatore preoccupa Tokyo e Pechino. Ancora più preoccupante è il rafforzamento elettorale del partito della restaurazione, partito di ultra destra guidato dall’ex-governatore di Tokyo Shintaro Ishihara, il quale è salito al potere cavalcando proprio la protesta ‘nazionalista’ sorta dalla contesa delle isole. Con la conquista di 54 seggi diviene il terzo partito presente in Parlamento, stabilendosi poco dietro il partito democratico che ha conquistato solo 57 seggi, subendo un crollo tanto grande quanto inaspettato. Il PGD è stato punito dagli elettori per la sua mollezza politica, la sua inefficenza e la sua scarsa proposizione concreta d’idee per quanto riguarda l’emancipazione dal nucleare.

La possibile alleanza governativa tra il PLD, il NUOVO KOMENI (storico alleato del partito liberal-democratico) e Ishihara, la vittoria della destra nazionalista e nostalgica in Corea del Sud, il nuovo corso della nomenclatura comunista cinese e la nuova sempre più attiva presenza statunitense nel sud est asiatico, da inserire in questo contesto è la visita recente di Obama nella Birmania di San Suu Kyi, rendono la situazione sempre più problematica ed esplosiva. La speranza è che la ricerca di un’equilibrio che avvantaggi lo sviluppo economico porti anche ad una distensione degli animi che ravvivi quella ‘pacificazione’ asiatica duramente e difficilmente conquistata nell’arco di tutto il secondo dopoguerra. La ricerca di un’equilibrio territoriale-marittimo, soprattutto in questo momento storico d’incertezza economica per il resto del mondo, rimane una questione fondamentale per tutta l’area, la quale per proseguire la propria prosperità economica deve per forza di cose puntare ad una soluzione diplomatica. Lo scoppio di una guerra di dimensioni difficilmente prospettabili andrebbe a nuocere l’aspirale di crescita che il sud est asiatico come tutta l’Asia sta vivendo.

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Giancarlo Pini


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