Affondare per il bene dell’Europa

di Stefano Rota – Transglobal

Gli interventi umanitari possono costituire la risposta a un problema che si basa su un assetto geopolitico globale fondato sulla differenza tra chi ha più o meno “diritto ad avere diritti”? Sulla produzione sistematica di crisi belliche, politiche, produttive, ecologiche, climatiche? Sull’espropriazione della vita di milioni di individui, attraverso l’impoverimento dei sistemi agricoli tradizionali, il land grabbing, la distruzione degli ambienti ecosistemici in tutto il Sud del pianeta?

La risposta è no, non possono dare una risposta, anche se in questo momento sono più che indispensabili. Facilitare l’accesso in Europa attraverso pratiche politiche, molto prima che umanitarie, con l’istituzione di canali specifici che si articolino in tutte le aree di crisi, qualunque tipo di crisi, che producono flussi; abolire il trattato di Dublino, che limita drasticamente la mobilità intraeuropea – non solo per i rifugiati – dovrebbero diventare oggetto di rivendicazioni da parte di chi vuole mettere in evidenza le responsabilità dell’Europa nella produzione e riproduzione continua di confini e differenze, secondo logiche che trovano nel colonialismo la propria origine.

L’umanitarismo fine a se stesso si macchia dell’onta dell’ipocrisia, annacqua e mette in secondo piano le responsabilità tutte politiche di coloro che oggi negano il diritto ad avere diritti a milioni di cittadini, trattandoli, nel migliore dei casi, come “sudditi” non graditi. La risposta umanitaria, in questo momento indispensabile, si basa su un concetto di eccezionalità che non esiste.

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Qual è stata la prima risposta dell’Europa a quanto sta accadendo? Lunedì scorso i ministri esteri e interni dei paesi dell’UE hanno stilato un programma di dieci punti che Steve Peer, sul sito di EU Law Analysis, definisce, con un eufemismo, un esempio di “policy laundering”.

Viene messo bene in evidenza come quei punti tendano, in prima istanza, a rafforzare i confini, più che a farsi carico del problema dell’arrivo dei profughi. Puntare al ruolo di Frontex, e quindi di Triton e Poseidon, equivale a dire rafforzare i meccanismi di controllo delle frontiere, anche attraverso “un nuovo programma per il rapido rientro dei migranti irregolari dai paesi in prima linea, coordinato da Frontex”, o un “aumento degli aiuti a Tunisia, Egitto, Sudan, Mali e Niger per il controllo delle frontiere e la prevenzione dei flussi di migranti irregolari” (Repubblica).

L’idea di bombardare i presunti mezzi di trasporto dei migranti via mare è tanto delirante, quanto insignificante e addirittura controproducente; si fa menzione a un alleggerimento del ruolo dei paesi di prima accoglienza dei migranti, senza ipotizzare sostanziali modifiche del trattato di Dublino, forse perché i vari Dublino 2, 3, 4 hanno dimostrato l’impossibilità di apportare modifiche significative. Si parla, inoltre, di un fantomatico progetto pilota volontario, da sviluppare nelle aree di crisi, per facilitare il passaggio, per i richiedenti, da quelle stesse aree all’Europa. Viene da ridere solo a pensare all’efficacia di un “progetto pilota volontario”.

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Ecco, questi sono alcuni dei punti che verranno discussi giovedì 23 a Strasburgo. Nel frattempo, alcuni prodi sindaci di città del Nord di appartenenza PD hanno disertato un incontro, in cui si voleva mettere a punto un piano di accoglienza dei migranti nelle varie aree, sottolineando la loro totale indisponibilità a tale piano e ribadendo come il loro attaccamento alla sedia di sindaco li porti a fare proprie le parole d’ordine più becere che sono girate in questi giorni.

La morsa che stringe i migranti tra imbarbarimento civico, con la rimozione dei più elementari principi di solidarietà umana, e una modello di governance europea tendente a riprodursi nel suo sistema restrittivo di controllo dei confini europei, direttamente funzionale alle operazioni degli scafisti, va spezzata. Va ribadito il principio del diritto ad abbandonare, fuggire da un ambiente che, contro la propria volontà, limita, fino a porre in dubbio la stessa sopravvivenza, qualunque tipo di principio fondato sul diritto a vivere.

Vedere tutto questo come una “crisi umanitaria”, oltre a “oscurare le cause strutturali sottostanti a questi flussi migratori – scrive Polly Pallister-Wilkins su Border Criminologies – produce la prosecuzione di tale sistema di controllo delle frontiere, mentre evita di considerare il fatto che gli interventi per salvare vite e per proteggere le frontiere hanno gli stessi effetti pratici. […] Una sottile linea unisce preoccupazione e controllo”.

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L’umanitarismo apolitico, sempre secondo Pallister-Wilkins, assume la funzione di una strategia intrinsecamente conservatrice. E su questo direi che non ci sono dubbi, soprattutto alla luce di quanto sta emergendo come misure “strategiche” che l’UE sta approntando proprio in questi giorni.


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