Il vero nesso tra Parigi e i rifugiati siriani

di Thomas Hylland Eriksen*

Due eventi drammatici. Uno si sta svolgendo da alcuni anni, l’altro è uno shock improvviso. Insieme stanno eclissando tutte le altre questioni. Siriani disperati che per fuggire dal loro paese distrutto entrano in gran numero nei paesi limitrofi e in quelli europei; una manciata di fanatici assetati di sangue ha ucciso a caso oltre un centinaio di persone innocenti a Parigi. Entrambi gli eventi fanno parte di una immagine inquietante più grande. Sono interconnessi e rivelano caratteristiche importanti del mondo in cui tutti noi viviamo attualmente.

Prima di tutto, come fattori causali dobbiamo prendere in considerazione le asimmetrie regionali. La costa settentrionale del Mediterraneo è costituita da stati stabili, prosperi e soprattutto pacifici, mentre le coste meridionali e orientali sono dominate da stati instabili, autocratici o al collasso e da disuguaglianza, insicurezza e stagnazione. Mentre la popolazione europea è cresciuta lentamente (da 350 a 450 milioni in sessanta anni), la popolazione dei vicini dell’Europa è esplosa: da 163 a 587 milioni nello stesso periodo. Nord Africa e Medio Oriente hanno popolazioni giovani, mercati del lavoro mal funzionanti e opportunità irregolari per l’istruzione superiore. In molti casi, la segregazione di genere aumenta ulteriormente l’inefficienza dei mercati del lavoro e delle istituzioni pubbliche. La pressione sul Mediterraneo, come se fosse una membrana che separa opportunità e stagnazione, sta guadagnando forza.

In secondo luogo, il valore della vita umana varia a seconda di dove si vive e chi si è. Questa può sembrare un’ovvietà, ma non vi è quasi mai una grande indignazione nei paesi ricchi quando l’attacco di un drone o di un missile mira a un leader terrorista e invece finisce per uccidere decine di innocenti, compresi i bambini. Eppure questo accade regolarmente e frequentemente. Non tutti ritengono accettabile che i paesi ricchi uccidano civili nei paesi poveri e l’attacco terroristico di Parigi può quindi essere inteso come un atto di vendetta.

In terzo luogo, il crescente impatto della politica identitaria crea una doppia polarizzazione in Europa occidentale. La prima è la competizione simbolica tra islamisti e “nativisti”, la seconda il conflitto tra politica di identità e politica secolare. In Svezia, tra i paesi più accomodanti nella crisi dei rifugiati in corso, sono stati bruciati centri di asilo e un recente sondaggio indica che un inedito 25 per cento della popolazione attualmente supporti la destra dei Democratici svedesi. La Francia, che ha una identità politica laicista (tutti i cittadini sono in linea di principio uguali, indipendentemente dalla loro cultura o religione), ha visto la recrudescenza della politica identitaria sia tra i nativisti (Fronte Nazionale) che tra gli estremisti islamici. Più di un terzo dei combattenti europei dello Stato islamico in Siria viene dalla Francia. Invece di accettare la politica della polarizzazione delle identità opposte, molti insistono nel basare progetti politici su altri principi invece che su religione o appartenenza a un gruppo. Per loro, islamismo e nativismo sono due facce della stessa medaglia.

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In quarto luogo, i conflitti ideologici, gli eventi e gli atti di violenza raramente possono essere geograficamente contenuti. La crisi danese a seguito del cartone animato del 2005 è stato un richiamo eloquente alla natura sempre più deterritorializzata dei conflitti: un giornale danese pubblica vignette sul profeta Maometto causando disordini in Nigeria e manifestazioni in Libano. Oggi il conflitto siriano, l’ascesa di IS o Daesh, i flussi di persone fuori dal paese e le reazioni ambivalenti con cui vengono accolti in Europa, la sensazione di privazione dei diritti civili e di emarginazione prevalente tra i giovani di origine nordafricana in Francia e la destabilizzazione dei paesi occidentali in Iraq, Afghanistan e Libia non possono essere visti in modo indipendente l’uno dall’altro. Anche se non sono de facto causalmente connessi, fanno parte di un pacchetto conoscitivo condiviso da molti musulmani, la maggior parte dei quali impegnati a vivere in pace con i loro vicini; molti di loro non sono nemmeno credenti. Il punto di vista condiviso da molti musulmani di entrambi i lati del Mediterraneo è che si sentono costantemente trattati come persone di seconda categoria. In Francia l’esperienza coloniale aggiunge la beffa al danno, visto che lì la maggior parte dei musulmani ha origini nel Maghreb.

Il collegamento più evidente tra la crisi dei rifugiati siriani e l’attacco terroristico di venerdì 13 è il suo comune denominatore, vale a dire IS o Daesh. La sua brutalità primitiva insegue le persone anche fuori dalla Siria, rafforza la polarizzazione in Europa regalando agli islamofobi un giorno di festa e distrugge anche la minima traccia di civiltà ovunque vada. Tuttavia, ci sono due concetti analitici che possono essere ancora più utili per comprendere la situazione attuale e il tipo di vulnerabilità che è stata palpabile almeno dagli attacchi contro gli Stati Uniti dell’11 settembre 2001.

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Il primo è la deterritorializzazione. Nell’epoca attuale nulla può essere geograficamente contenuto. Proteggere i confini di un paese è meno praticabile di quanto lo è stato nel passato, e la politicizzazione della sicurezza può dare solo un falso senso di sicurezza. E’ improbabile che rispondere alla violenza con altra violenza risolva qualcosa, anzi serve più a soffiare sul fuoco che a sedarla. I fanatici religiosi suicidi sono probabilmente da contrastare con la violenza, ma liberarsi di questi individui non affronta le sottostanti contraddizioni strutturali. La soluzione per le minacce del terrorismo e i flussi ingovernabili di rifugiati è una distribuzione globale più equa di dignità e di opportunità, non le recinzioni e la sorveglianza del filo spinato. D’altra parte nessuno sa come arrivarci, ma per certo affrontare i sintomi senza tener conto delle cause è raramente una cura raccomandata.

Il secondo concetto è la schismogenesi. Coniato nella metà dello scorso secolo con gli scritti di Gregory Bateson circa gli incontri interculturali, si riferisce alla spirale di conflitti auto-rinforzanti. Quanto più mi minacci, più minaccerò io voi. Portato all’estremo, i predicatori religiosi intolleranti diffondono il loro veleno e i nativisti e islamofobi rispondono denunciando ogni forma di islam come antidemocratica e ostile alle società europee. A meno che un terzo fenomeno mediando entri in questa danza di distruzione e offra un approccio alternativo, il risultato può essere catastrofico.

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Civiltà o barbarie. Civilisation ou Barbarie. Attaccare persone innocenti è una barbarie, a prescindere dal fatto che siano marroni o bianche, povere o ricche. Trovare il modo di vivere insieme in questo surriscaldato mondo interconnesso è un atto civile e civilizzante. Il vero pericolo oggi è che la politica dell’identità divisoria, perpetuata da etnonazionalisti e da jihadisti, riesca a prendere la maggioranza in ostaggio con le loro ideologie distruttive. Il loro mondo ideale sarebbe fatto di sospetti e non di fiducia, di ritiro piuttosto che d’apertura, di nostalgia retrograda piuttosto che d’accettazione delle impurità e degli attriti che inevitabilmente caratterizzano un mondo in movimento, sia letteralmente che metaforicamente. Come disse una volta il mio amico Khalid Salimi, fondatore del Centro antirazzista di Oslo e attualmente responsabile del festival musicale Mela: “Dobbiamo smettere di parlare di costruzione di ponti. Invece, dobbiamo renderci conto che viviamo tutti sulla stessa isola”.

*Thomas Hylland Eriksen è scrittore e antropologo presso il dipartimento di antropologia sociale dell’Università di Oslo.


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