Gideon Levy e la guerra degli inganni

In un’intervista fiume Gideon Levy, che per aver raccontato l’occupazione di Gaza ha dovuto girare con la scorta, racconta cosa vuol dire fare giornalismo in Israele

di Riccardo Bottazzo

Un israeliano come tanti. Nato e cresciuto in una Tel Aviv in perenne stato d’assedio e bombardato sin dai primi anni di scuola dalla macchina della propaganda. Così si racconta il giornalista Gideon Levy ai ragazzi del liceo artistico Guggenheim di Venezia che ha incontrato nell’aula magna del loro istituto giovedì scorso. Un israeliano come tanti con soltanto una particolarità in più.

Lui si è fatto delle domande.

Sin da bambini ci raccontano che le sole vittime siamo noi, che gli arabi vorrebbero buttarci tutti a mare, che il nostro esercito è il più morale del mondo, che è cosa normale accettare la brutalità di quanto accade a pochi metri da noi, che non ci sono alternative a questo stato di cose. Quando ho cominciato a fare il giornalista ed a girare per i territori palestinesi, ho cominciato a chiedermi come tutto ciò fosse possibile. Come può essere il più morale del mondo un esercito che massacra donne e bambini? Come può una società come quella israeliana che, se un terremoto sconquassa Haiti è la prima a portare soccorso, possa convivere con tutto questo orrore? Eppure, se fate queste domande ad un israeliano, vi risponderà offeso che sono loro, le vere vittime“.

Gideon ricorda Golda Meir, una delle fondatrici dello Stato di Israele, che ripeteva “Non perdoneremo mai ai palestinesi di averci costretto ad ammazzare i loro bambini”. Ma c’è qualcosa di sbagliato in tutto questo. E Gideon Levy se lo è chiesto, prima ancora che come ebreo, come vero giornalista.

L’idea che noi siamo il popolo eletto è radicata in Israele non solo tra i religiosi ma anche in chi non è credente e non lo ammetterebbe mai: ‘Noi siamo l’élite dei popoli della terra, noi siamo le più grandi vittime della storia. Dopo l’Olocausto, noi abbiamo il diritto di fare quello che vogliamo, di prenderci tutto quello che ci aggrada’. Nella storia dell’uomo ci sono tante occupazioni ma quella di Israele in Palestina è l’unica in cui gli aggressori si presentano come vittime. ‘Noi non vorremmo occupare ma siamo costretti a farlo! I palestinesi sono dei mostri e ci ucciderebbero tutti se potessero’ ”.

LEGGI ANCHE:   Cronistoria di una catastrofe prevedibile

Una spessa coperta di bugie che è dura da sollevare perché è saldamente cucita da tutti i settori della società israeliana, dall’esercito all’istruzione, dal governo ai servizi segreti, dai mass media ai lettori.

Non c’è particolare censura nel mio Paese. Sono i giornalisti che non vogliono raccontare la verità. Preferiscono tranquillizzare i loro lettori raccontando la frottola che tutto va bene. Dissenso? Certo. Ci sono numerosi, eroici, gruppi di ebrei che si battono per i diritti umani, ma sono assolutamente minoritari. Inoltre, nessun giornale da loro spazio e li bolla anzi come traditori. Io, che ho raccontato la vera occupazione di Gaza, ho dovuto girare con la scorta. E quando ho scritto che trattiamo i palestinesi come animali, mi sono arrivate centinaia di lettere di protesta… ma da parte delle associazioni di tutela degli animali!”

Alle basi di quanto accade, sostiene Levy, c’è il tacito consenso della comunità internazionale che, per comodo o per sensi di colpa non ancora superati, consente ad Israele di fare ciò che non permetterebbe mai ad altre nazioni. Quello che è apartheid in Sudafrica, in Israele è legittima difesa.

Eppure cosa è, se non apartheid, quanto accade da noi? Fino a quando Israele non pagherà a livello internazionale il prezzo della sua arroganza, non ci sarà speranza in Palestina”.

La pace, spiega Gideon, passa lungo la strada della democrazia. Inutile farsi illusioni sulla vecchia proposta “Due popoli, due Stati”.

Ci sono 600mila coloni nei territori occupati. Non vedo nessun politico che voglia o abbia la capacità di sgomberarli. E, d’altra parte, il Governo ha permesso la colonizzazione dei territori proprio per scongiurare la creazione di uno Stato autonomo palestinese. A questo punto, sperare di salire su questo treno già partito, sarebbe solo una perdita di tempo. Dobbiamo capire cosa è Israele oggi e renderci conto che, in realtà, Israele è tre Stati. Il primo, democratico e difensore dei diritti civili, con i suoi cittadini ebrei. Il secondo, quello della discriminazione nei confronti dei suoi cittadini di origine palestinese. Il terzo, quello dell’apartheid, quello che uccide e tortura le donne, gli uomini e i bambini dei territori occupati. Questo triplice sistema deve essere abbattuto con la formula: un solo Stato per tutti, con uguali diritti per tutti. Le colonie? Restino, ma su una base democratica. Ma per arrivare a ciò, la comunità internazionale deve rendersi conto che Israele è uno Stato come gli altri e non gli è permesso discriminare in base alla razza. Proprio come non è stato consentito di farlo al Sudafrica. Inutile sperare che cambi qualcosa all’interno della società israeliana o che il Governo israeliano conceda a tutti gli stessi diritti, se ciò non gli verrà imposto con sanzioni e la perdita di finanziamenti dall’Europa e dagli Stati Uniti. Non vedo altri sistemi capaci di porre fine alle sofferenze del popolo di Palestina”.

LEGGI ANCHE:   Covid e occupazione stanno stritolando ciò che resta della Palestina

Gideon Levy conclude con un messaggio di speranza.

Nella storia, gli avvenimenti accadono spesso inaspettati. Penso al muro di Berlino e alla caduta dell’impero sovietico. Chi se lo sarebbe aspettato, solo qualche mese prima? Proprio come quegli alberi che ammiriamo alti e forti. Poi, improvvisamente un giorno, li vediamo crollare e scopriamo che erano marci dentro. E io non riesco ad immaginarmi nulla di più marcio dell’occupazione israeliana in Palestina”.


Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.
LEGGI ANCHE:   Il coronavirus ci ha confermato che sugli esteri serve un giornalismo di qualità
Dello stesso autore

1 Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potresti apprezzare anche

No widgets found. Go to Widget page and add the widget in Offcanvas Sidebar Widget Area.