L’eccidio nel carcere di Monterrey

di C. Alessandro Mauceri

L’11 febbraio a Monterrey, in Messico, è scoppiata una rivolta in un carcere in cui erano reclusi molti narcos. Le autorità sono intervenuto prontamente, ma gli scontri alla fine hanno avuto un bilancio pesantissimo: 52 morti e molti feriti, alcuni dei quali in gravi condizioni.

La causa dell’intervento delle forze armate sarebbe stato il tentativo di fuga di alcuni detenuti. Il governatore di Nuevo Leon, Jaime Rodriguez, ha cercato di spiegare quanto avvenuto attribuendo la causa degli scontri alla lite tra esponenti di due dei tanti cartelli, quello del Golfo e quello degli ‘Zetas’. Ma, secondo molti, la vera ragione delle proteste sarebbero le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere molti dei detenuti.

Non a caso la rivolta nel carcere di ‘Topo Chico’ è esplosa solo pochi giorni dopo le proteste in un altro carcere messicano, ‘Cereso 3’ a Ciudad Juarez, che, fino a pochi anni fa, era ritenuta la prigione più pericolosa dell’America Latina. Ma già nel 2012, nel corso di una rivolta in una prigione di Apodaca, sempre a Nuevo Leon, 44 carcerati avevano perso la vita mentre protestavano per le condizioni di reclusione.

Molte delle carceri del paese sono sovraffollate: quando ha assunto l’incarico il nuovo governatore, a ottobre 2015, nelle carceri c’era un 40 per cento di detenuti in più rispetto a quelli che potevano essere ospitati. In Nuevo León, ci sono 8.120 detenuti, di cui circa 1.600 sotto la giurisdizione federale. E nel carcere di Topo Chico c’è un eccesso del 40 per cento di detenuti di sesso maschile e del 63 per cento nella sezione femminile.

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Ma la cosa che più ha sorpreso gli uomini dell’esercito, della marina e della polizia nazionale, chiamati dalle guardie carceriere, sono state le condizioni in cui vivono i boss in carcere. Mentre molti detenuti vivono in celle senza acqua, ventilazione o luce, ai leader delle bande erano concessi lussi inimmaginabili. Come quelli ammessi, in una dichiarazione rilasciata dopo gli scontri, dall’ufficio il procuratore dello stato di Nuevo Leon: i militari che sono intervenuti hanno scoperto che il capo del cartello ‘Los Zetas’, Ivan Hernandez Cantu, viveva in un vero e proprio miniappartamento (chiamarlo cella non sarebbe esatto) dotato di ogni comfort, dal letto king-size al bagno di lusso e al gigantesco televisore a schermo piatto. Ma anche altri detenuti beneficiavano di condizioni di carcere certamente non “duro”: nelle loro celle disponevano di condizionatore d’aria, mini-frigo e perfino di un  acquario con tanto di pesci. Celle di lusso destinate ai prigionieri che potevano permettersele. “Tutti questi privilegi appartengono al passato”, ha detto un rappresentante delle autorità, aggiungendo che nel penitenziario saranno ora inviati dei consulenti legali per “rivedere i casi di ciascun detenuto”. 

Già nel 2013, la Commissione nazionale per i diritti umani aveva denunciato che delle 101 carceri più affollate del Paese ben 65 erano in realtà gestite dai carcerati e non dalle autorità carcerarie.

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Dopo la fine della rivolta, Martín Sánchez, direttore dell’organizzazione non governativa per la riforma del sistema penale messicano Renace, ha ammesso che da molti anni lo stato non aveva il controllo del penitenziario di Topo Chico, in mano ai gruppi criminali.

Tra l’altro, la polizia ha smantellato ben 280 “stand gastronomici”, un bar e centinaia di altari di Santa Muerte, una controversa figura di culto venerata da molti membri dei cartelli della droga messicano.


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