“Libertà di movimento e chiusura dei Cie”, approvata la Carta di Lampedusa

 

di Riccardo Bottazzo

Strana gente quella che gira in questi giorni per Lampedusa. Salta subito all’occhio che non si tratta dei soliti turisti. Un po’ perché siamo fuori stagione e batte un freddo bestia, un po’ perché non vestono firmato, non scarrozzano valigie di marca ma portano uno zaino sulle spalle dove hanno infilato qualche straccio di ricambio tra pacchi di libri, quaderni e computer portatili. E poi se ne vanno a zonzo per l’isola a piedi, nonostante il vento di Libeccio abbia scaricato sull’isola un acquazzone torrenziale che va avanti da tre giorni. E ancora… i discorsi che fanno… No. Non sono i soliti turisti quelli che girano in questi giorni per le strade di Lampedusa.

Sono tanti però, circa 350 persone. E ognuno di loro è un’isola nel variegato (e qualche volta pure rissoso) arcipelago associativo che spazia dall’antirazzismo all’accoglienza passando per i diritti umani. Sono arrivati a Lampedusa dopo viaggi con tre o anche quattro scali aerei. Alcuni vengono dall’Olanda, dall’Inghilterra o dalla Germania, come gli attivisti di “Lampedusa in Hamburg”. Altri anche dal Nordafrica. La maggior parte però, per una questione di vicinanza, sono italiani.

Tutti hanno accolto l’appello lanciato dal Progetto Melting Pot appena dopo la tragedia del 3 ottobre di ritrovarsi a Lampedusa da venerdì 31 gennaio a domenica 2 febbraio per disegnare assieme le “frontiere” di una Europa senza frontiere. Una Europa che garantisca il diritto d’asilo ai profughi e il diritto di tutti alla libera circolazione.

Perché proprio a Lampedusa? Lo ha spiegato bene Giusi Nicolini. Lampedusa, ha commentato la sindaca intervenendo all’assemblea, è un perfetto paradigma di come l’attuale politica sulle migrazione violi non solo i diritti dei richiedenti asilo ma anche delle popolazione costrette a vivere l’eterna emergenza delle aree di confine. “Non c’è una sola Lampedusa in Europa e neanche nel mondo. Sono tante le Lampeduse nel mare Mediterraneo, così come tra l’Australia e le Filippine. Tutte queste Lampeduse vogliono che il diritto di asilo diventi effettivo, che la tratta venga combattuta da un modo diverso di affrontare le politiche migratorie. Tulle le lampeduse del mondo chiedono di rovesciare un linguaggio politico che continua ad essere imprigionato dentro le gabbie sicurtarie. Non ci sarebbe bisogno di Mare Nostrum se ci fossero forme diverse e più agili per concedere il diritto di asilo”.

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Nelle sala dell’aeroporto di Lampedusa, la sola in tutta l’isola abbastanza ampia per provare a contenere tutti i partecipanti, le assemblee si sono susseguite dalla mattina presto a notte fonda. Sono stati, diciamocelo pure, tre giorni duri anche perché non è stato affatto facile tenere insieme realtà vicine nei principi ma lontane per provenienza, non solo geografica.

Sabato sera però, la Carta di Lampedusa è diventata una realtà. La sua versione definitiva, frutto di un percorso partecipato lungo circa tre mesi e costruito via web attorno ad un documento wiki di scrittura condivisa, la potete scaricare dal sito meltingpot.org.

“E’ importante sottolineare che la stesura della Carta non esaurisce il nostro cammino, anzi – ha concluso Nicola Grigion di Melting Pot, appena dopo la chiusura definitiva del documento – E’ stato un lavoro collettivo ma eccezionale. Un testo che è un vero e proprio patto tra tanti e diversi, ma allo stesso tempo una dichiarazione programmatica. Il frutto di uno sforzo di condivisione che è già di per sé un fatto politico importantissimo. Ora ci aspettano mesi di lotte e campagne da condurre in tanti e diversi, a partire da quelle per l’immediata chiusura dei pochi centri di detenzione ancora attivi in Italia. Ma anche un periodo in cui affrontare l’Europa e le politiche che ha costruito nel Mediterrano. Per rovesciarle. Una sfida che non possiamo permetterci di perdere”.


Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.
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