Una diga per mettere fine al Kurdistan

Un piano da 32 miliardi di dollari per modificare il corso dei bacini di Tigri ed Eufrate e riprendere i sogni industriali di Ataturk. Ma il progetto di Erdogan rischia di spazzare via per sempre il patrimonio culturale e ambientale del Kurdistan settentrionale

di Riccardo Bottazzo

Si chiama Güneydoğu Anadolu Projesi (Gup), traducibile con “Progetto per l’Anatolia Sud Occidentale”, e viene spacciato come un piano di proporzioni bibliche da 32 miliardi di dollari per trasformare gli alti bacini dei fiumi Tigri ed Eufrate con la realizzazione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche.

Pensato da Kemal Ataturk, il fondatore dell’attuale Turchia, come un grimaldello per rifondare lo Stato in chiave moderna, spingendolo verso una industrializzazione forzata, nelle mani del presidentissimo Recep Tayyip Erdogan, il Gup è stato trasformato in un vero e proprio strumento di genocidio per sommergere sotto tonnellate d’acqua le città, i villaggi, i luoghi di resistenza e di memoria di quei curdi che continuano a resistere alla dittatura.

La fase attuativa del progetto è cominciata a cavallo degli anni ’80 e ’90, con la costruzione di due di queste dighe: la Karayak e la Ataturk. Per l’alto costo dell’operazione e per i risultati raggiunti – la Turchia non avrebbe necessità di altra energia -, sembrava che il Gup fosse arrivato alla sua conclusione. Era chiaro a tutti gli investitori che il gioco non valeva la candela. Il Governo turco si trovò senza più finanziatori, con oltre 90 mila sfollati da ricollocare e bersagliato dalle critiche degli ambientalisti di tutto il mondo per la distruzione di inestimabili tesori archeologici di origine persiana, romana, greca ed hittita. La censura della Comunità Europea – per quanto tardiva – favorì l’accantonamento del Gup che fu ultimato solo per un decimo scarso di quanto previsto inizialmente.

Con l’ascesa al potere di Erdogan, il Gup ha ripreso vita ma in funzione decisamente anti curda. L’Anatolia Sud Occidentale, cui fa riferimento il progetto, altro è che quel Kurdistan. Termine geografico che, a queste latitudini, non puoi neppure pronunciare a meno che tu non voglia finire dritto in galera, anche se sei avvocato, anche se sei giornalista, anche – o meglio, soprattutto se, – sei deputato.

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E così sono ripresi i lavori di realizzazione di altre dighe come quella di Birecik che ha sommerso l’antica città di Zeugma. Lavori che hanno portato vantaggi pressoché nulli all’economia turca ma che, in compenso, hanno causato perdite irreparabili al patrimonio artistico che, ricordiamolo, non appartiene mai ad una solo Paese ma all’intera umanità.

La prossima vittima, con la ventilata realizzazione della diga di Ilisu, sarà Hasankeyf, antichissima cittadine con duemila abitanti che tutti gli archeologi sono concordi nel giudicare uno dei siti più promettenti al mondo per studiare i primi insediamenti umani alle radici della preistoria. Una città dove la storia si respira ad ogni passo e dove ad ogni passo si possono ammirare resti assiri, urartiani, persiani, romani, bizantini, omayyadi, abassidi, artuquidi… Tutto questo sta per scomparire ad opera di un uomo che l’Unione Europea ha eletto a suo alleato.

Il totale disprezzo per Erdogan nei confronti di tutti i reperti che non siano conducibili a quella disgrazia storica di cui lui si crede erede che è stato l’Impero Ottomano (che ha fatto per il Medio Oriente quello che la colonizzazione europea ha fatto per l’Africa) non è la sola chiave interpretativa per giustificare la diga di Ilisu.

Secondo gli attivisti, nelle mani di Erdogan, il Gup va inserito di una più vasta operazione che mira a genocidiare il popolo curdo. Non solo sommergendo i luoghi della sua memoria storica ma anche di abbattendo le principali roccaforti dove si nasconde la resistenza del Pkk, sommergendo i villaggi che sostengono i guerriglieri e quei sentieri di montagna dove i combattenti curdi si sono dimostrati invincibili. “I migliori amici di un curdo – recita un proverbio – sono le sue montagne”.

E proprio queste, sono le montagne che Erdogan vuole sommergere.

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Il tutto, sotto l’ottica di una trasformazione radicale del territorio che prevede l’allontanamento dei pastori curdi per fare spazio ad una nuova economia fondata sull’agricoltura, affidando le nuove terre a quei contadini turchi di bassa estrazione sociale che sono la colonna vertebrale dell’elettorato di Erdogan. E magari, trasferire sulle sponde dei nuovi bacini idrici, anche qualche migliaio di quei profughi siriani per paura dei quali l’Unione Europea ha letteralmente venduto l’anima al diavolo.

Un vero e proprio “patto col diavolo”, questo che l’Europa ha sottoscritto con Erdogan, in virtù del quale i lavori alla diga di Ilsu sono stati recentemente ripresi, dopo l’abbandono a metà degli anni ’90 per le incursioni del Pkk, l’opposizione della popolazione che si era rifiutata di collaborare in qualsiasi modo alla realizzazione dell’opera e le determinate prese di posizione di associazioni ambientaliste e, all’epoca, pure di tanti Governi esteri.

Adesso le cose sono cambiate e l’Europa vede in Erdogan solo un alleato disposto a far barriera contro quelle “invasioni di profughi” che, numeri alla mano, non hanno nessun riscontro reale ma che le destre sanno cavalcare così bene. Un prezioso alleato per i cui servigi val la pena di chiudere un occhio ad ogni azione discutibile.

E così Erdogan può impunemente arrestare giornalisti ed oppositori, massacrare popolazioni, fare affari con gli stessi integralisti che afferma di voler contrastare.

E, infine, anche “atlantidizzare” una intera regione piena di storia, arte, cultura e di combattenti che resistono in nome di quella stessa libertà e quella stessa democrazia che dovrebbero essere anche le bandiere di una Europa dei popoli e non delle banche.


Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.
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