Coreano di nascita, adottato negli anni ’80 da una famiglia di Bergamo, Yoon Cometti Joyce è cresciuto tra violenze a sfondo razziale e discriminazioni costanti per la sua fisionomia. Reggere i “muso giallo, tornatene al tuo paese”, i “mia figlia non può uscire con uno con gli occhi a mandorla” o i “zao, placele” è stata talmente dura da spingerlo a tentare il suicidio. Unica terapia la recitazione, che gli ha permesso di accettare la complessità della propria identità. Con alle spalle oltre quaranta film realizzati e numerose collaborazioni con giganti del cinema – tra cui Ridley Scott, Martin Scorsese, Leonardo DiCaprio e Gabriele Salvatores – oggi Yoon usa il suo talento (e la sua fisionomia orientale) per combattere le stereotipizzazioni sul grande schermo.
Intervista di Valerio Evangelista. Foto copertina di Davide Fazio
Molti attori sono stati, o si vantano di essere stati, dei bambini prodigio. Tu come ti sei avvicinato alla recitazione?
I miei mi adottarono quando avevo tre mesi; mio padre era sempre in giro, per lavoro, e noi lo seguivamo. Eravamo in Arabia Saudita, vivevamo in un quartiere italo-americano con cinquanta gradi all’ombra. A scuola dovetti scegliere un’attività extra-curriculare. Avevo la gamba ingessata, perciò non potei accedere ai gruppi di calcio, di pallavolo e di nuoto. Rimaneva disponibile soltanto il gruppo di teatro. Vi facevano parte quasi solo ragazze. Non avevo alcuna voglia di fare teatro, ma dovevo scegliere un’attività e quella era l’unica opzione rimasta. Non mi piaceva, perché avevo poca memoria. La maestra era disperata: non ricordavo le battute, ero svogliato, non mi piaceva nulla. Poi ci fu la svolta.
Cosa ti fece amare il teatro?
La maestra mi consigliò di improvvisare. Di inventare le battute che non ricordavo, purché rimanessero attinenti alla situazione e coerenti a ciò che avrebbe risposto l’altra persona sul palco. Iniziai a guardare tutto sotto un’altra luce. Cominciai a esagerare, improvvisando mettendo delle cose che non c’entravano niente col testo. La maestra tornò a perdere la pazienza con me, non riuscendo a contenere questa esuberanza. Però mi diede la possibilità di approcciarmi in un modo diverso alla recitazione. Cominciai ad appassionarmi.
Da bambino hai costantemente seguito tuo padre in giro per il mondo. Questo non ti ha però impedito di coltivare il tuo sogno.
Quando rientrai in Italia, dopo circa tre anni, mi unii a una compagnia teatrale di ragazzi. Dopo un anno lasciammo Bergamo alla volta dell’Algeria. Inizialmente ci furono un po’ di problemi legati alla lingua. Quasi nessuno parlava inglese. Ancora una volta, dovetti resettare tutto e ripartire. Anche lì, mi unii a una compagnia teatrale per bambini. C’erano ragazzini da tutto il mondo, frequentavo principalmente un ambiente internazionale. Dopo circa tre anni tornammo nuovamente in Italia. Ci trasferimmo a Napoli per un anno, dove frequentai un altro gruppo teatrale. L’approccio era amatoriale ma c’era un’atmosfera stimolante, anche a causa della presenza marcata dell’accento napoletano. A me piaceva molto sperimentare accenti diversi, sia in italiano che in inglese. Dopo una breve parentesi in Austria ci ristabilimmo definitivamente in Italia. Iniziava il periodo delle superiori. A Bergamo. E lì cominciarono i problemi.
Da italiano di origine coreana, com’è stato crescere nella Bergamo degli anni ’80?
Era una realtà completamente diversa. Ero sostanzialmente l’unico asiatico nella bergamasca, in quel periodo. Fu uno scontro a pugni stretti. Anche nella scuola, ovviamente, il primo impatto era quello fisico. Non avendo mai visto altri bambini asiatici, alla prima occasione di confronto quello che veniva preso di mira era il mio aspetto. Percepii il primo fardello legato alla mia etnia. Avvennero i primi episodi di razzismo, i primi scontri violenti. Non fu facile, perché cominciò un lungo periodo di depressione.
Tolti i parenti e gli amici, sembrava che tutti avessero forte astio nei miei confronti. Allo stesso tempo, mi unii a un altro gruppo di ragazzi appassionati di recitazione. Mio padre non voleva che frequentassi scuole di teatro, perché in realtà non era mai stato d’accordo. Finché rimase una cosa ludica tollerava questa cosa, ma non l’aveva mai digerita davvero. Mi disse di scordarmi scuole d’arte, liceo artistico, accademie di teatro. Avrei dovuto fare come tutti gli altri, frequentare una scuola che mi desse un diploma dopo la quinta. Mi offrì la possibilità di scegliere tra una scuola per geometri o una scuola per ragionieri.
Cosa scegliesti?
Non sapevo neanche cosa fosse, un geometra. Lui controbatté che un geometra è “uno che progetta e fa le case. C’è un po’ di disegno, e a te piace il disegno, no?” Il tipo di disegno che interessava a me era tutt’altro. Decisi di declinare l’offerta e andare a lavorare. Per tre, quattro mesi – era estate – feci qualche lavoretto. Mia madre pianse all’idea di avere un figlio non diplomato, mi implorò di tornare sui miei passi. Proposi un compromesso: avrei frequentato la scuola per geometri a condizione che avrei avuto il permesso di andare ogni pomeriggio a Milano per frequentare una scuola di teatro. Mio padre era lontano, anche due o tre mesi all’estero, e non ero sotto il suo controllo. Mi iscrissi a questa scuola di recitazione e capii meglio l’impronta che avrei voluto dare alla mia passione artistica. Divenne la mia migliore terapia. Per assurdo che fosse, mi diede la possibilità di scindere il mio essere e analizzarlo dall’esterno nei panni di qualcun altro. Una cosa molto complessa, mi rendo conto ora. Che però funzionò. Se non feci qualche stupidata, come la potrei definire adesso, lo devo proprio a questo.
Si potrebbe dire quindi che l’arte e la recitazione ti abbiano salvato la vita.
Letteralmente. Dopo gli scontri subiti e il razzismo avevo pensato a tutto. Non ti dico quante volte sono finito in ospedale. Insultato per strada con commenti cretini, dal “muso giallo” al “tornatene al tuo paese”, dal “cosa ci fai qui” al “ziao zinese plendele pulile”. Non ti dico poi quando cominciarono ad arrivare i primi cinesi. La gente cominciò a capire che alcuni di questi parlavano male l’italiano e la mia sofferenza si amplificò ulteriormente.
Da adolescente ero ancora più sensibile, debole e fragile di fronte a questa violenza non solo fisica ma anche e soprattutto psicologica. Ci si mise pure mio padre, che è sempre stato poco empatico, con il quale ho avuto dei forti scontri. Questa cosa mi segnò profondamente. Ho pensato al suicidio più di una volta. Ho anche tentato. Fallendo, fortunatamente, nei miei intenti. La recitazione arrivò nel momento giusto. Riuscì ad accogliermi e a portarmi via.
Come erano i rapporti con gli altri?
Nella mia città, le mamme delle ragazzine non volevano assolutamente che queste uscissero con me. Negli anni ’80 era così. Dicevano, “Mia figlia non uscirà mai con un uomo che ha gli occhi a mandorla, con quella faccia così“. Un’altra mi disse apertamente, “Se tu dovessi mettere incinta mia figlia, che bambini potrebbero nascere? Sarebbe un peccato nei confronti di Dio“. Un dramma. Poi scoprii che fuori dall’Italia non era così. Sì, io mi formai in un contesto internazionale, ma trascorsi il periodo della mia adolescenza in Italia, era quella la mia nuova realtà. Poi quando cominciai a viaggiare all’estero per conto mio scoprii che l’Italia era fumo, non era la realtà.
Fu allora che iniziasti a pensare alla recitazione come a uno strumento di lotta sociale?
È una cosa strana, se ci ripenso è abbastanza paradossale. Non avevo mai connesso la recitazione – che per me era qualcosa di ludico e divertente – ai film. Crescendo, ho capito che erano la stessa cosa, rendendomi conto che anch’io potevo contribuire e far parte di questo ambiente. E che il mio viso così peculiare, che fino a quel tempo era stato oggetto di scherno e causa di indicibile sofferenza, sarebbe stata la mia arma con cui avrei potuto combattere questi stereotipi. Ancora oggi continuo a battermi per portare con il cinema, che è uno strumento potente, un cambiamento nel modo di fare cultura.
I tuoi primi ruoli, però, erano fortemente stereotipati.
Cominciai a fare i provini e partecipare alle prime trasmissioni televisive. Fui ingaggiato da Mai dire gol, che al tempo era agli esordi. Inventai un personaggio che non esisteva, che parlava in bergamasco e non ricalcava stereotipi dell’asiatico sommesso e anche un po’ sfigato, diciamolo. Io ero un bergamasco asiatico, e quindi parlavo in bergamasco. Con tutti gli stereotipi dei bergamaschi: pensava solo a “laurà, laurà, laurà”, veniva dalla valle, era ignorante, un po’ rozzo e un po’ truzzo. Questo decretò un buon successo a quell’epoca, perché non si era mai visto un asiatico che parlasse in bergamasco. Fu un inizio. Cominciai a partecipare ad altri film, ma con ruoli molto piccoli e necessariamente stereotipati. Non potevo farci niente. Mi scornavo e mi scontravo, ma a Roma mi dicevano che non c’era altro per me. Le parti concessemi ricalcavano tutte i cinesi di prima generazione, quelli che parlavano con la “l” al posto della “r”, che non erano appariscenti, che erano sempre sfigati, dei poveracci, al massimo dei venditori ambulanti.
Poi arrivò la fase del ristorante cinese o giapponese, e io seguivo passo passo questa evoluzione sociale. Che poi è un’idiozia: cinesi, coreani e giapponesi sono diversi tra loro come lo sono italiani, rumeni e albanesi. Stufo della dinamica, tornai negli Stati Uniti per i fatti miei. Andai a Los Angeles dove frequentai un’accademia d’arte drammatica. Dopo due anni e mezzo vinsi una borsa di studio a New York, dove vissi un anno. Nel 2001 tornai in Italia. Le cose stavano cominciando a cambiare, c’era qualche timido segnale. Leonardo Pieraccioni mi offrì un ruolo in cui avrei dovuto parlare perfettamente italiano. Mentre tutti gli altri personaggi parlavano con accenti diversi provenienti da varie parti dell’Italia, io parlavo un italiano senza accento, abbastanza erudito e un po’ saccente. Questa fu la prima occasione che ebbi di fare qualcosa di diverso. Da lì in poi le cose andarono sempre più cambiando, nonostante io cominciai a collaborare nuovamente con produzioni estere.
Per evitare di abbassare gli standard e normalizzare la stereotipizzazione nel cinema, non basterebbe rifiutare determinati ruoli?
In questo momento, assolutamente sì. A quei tempi, no. Era impossibile. Io viaggiavo su binari simili a quelli degli altri, ma paralleli. Attualmente sono uno dei pochissimi attori asiatici professionisti in Italia. Adesso cominciano a esserci dei giovani cinesi nati in Italia che vogliono fare cinema e che quindi stanno studiando, ma al tempo ero l’unico. Non potevo scegliere. Avevo bisogno di fare esperienza, stare sul set, capire come funzionavano le cose e conoscere le strutture gerarchiche del settore, come funzionava con l’agenzia, il rapporto con la produzione e così via. Io avevo sete di questo. Non mi potevo permettere di fare lo schizzinoso. La cosa positiva è che non avevo concorrenza, ma cominciavano a inventarsi ruoli su di me cucendoli sulla base di ciò che accadeva nel sociale.
Quindi non accetti più ruoli stereotipati?
Hai mai visto un poliziotto cinese in Italia? Io no. Hai mai visto un avvocato cinese in Italia che difende un italiano? O un magistrato asiatico o un magistrato afro-italiano? No. Ma nella prossima generazione ci saranno, è palese. I giovani d’oggi, figli dei figli degli immigrati, stanno studiando. Tra due generazioni diventerà normale. Negli Stati Uniti, in Francia e in Inghilterra – anche per motivi storici complessi e delicati – è normale avere poliziotti asiatici o avvocati africani. È un processo di evoluzione. Quindi sì, attualmente non accetto ruoli stereotipati. Sono almeno quindici anni che rifiuto quei lavori. Mi continuano ad arrivare proposte del genere, sia chiaro. Ruoli di un certo peso e pagati bene, ma stereotipati e idioti. Io non sono ricco e non sono nella condizione di rifiutare alla leggera dei lavori sostanziosi, ma lo faccio con convinzione. Fa parte del mio percorso.
Credi che nel cinema italiano di oggi le minoranze siano rappresentate adeguatamente?
Penso che siamo in un momento di grande transizione e in cui stanno cambiando tante cose. La vecchia generazione di produttori e registi sta cambiando, sta passando il testimone. L’approccio italiano dell’attaccamento alla poltrona è reale, anche in questo ambiente. Ma le cose stanno cambiando, anche in virtù della possibilità sempre crescente di poter viaggiare e utilizzare la rete. Tante cose stanno cambiando adesso e la tecnologia ha aiutato ad aprire la mente, a poter vedere persone diverse e potersi confrontare in modo diverso. C’è un però.
Quale?
Nonostante tutto, la maggior parte dei film italiani attuali non contemplano ancora minoranze con ruoli primari. Ogni volta che appare un personaggio appartenente a una minoranza etnica in un film italiano deve giustificare la sua presenza e il fatto che parli perfettamente italiano. Sarebbe ridicolo se Morgan Freeman, Denzel Washington o Will Smith fossero socialmente obbligati a doversi contestualizzare in ogni film, recitando battute come “Io parlo inglese perfettamente perché sono nato negli Stati Uniti” oppure “I miei nonni sono arrivati qui negli anni ’60”. Al pubblico cosa dovrebbe importare? Ecco, in Italia non è così, il tuo personaggio deve dare delle coordinate per giustificare la propria presenza. Questo paradosso costituisce il danno maggiore, che si aggiunge al fatto che in Italia ci sono quattro attori, e quei quattro attori continuano ad apparire in ogni sacrosanto film. Il cinema italiano è un sistema chiuso, difficile da penetrare. Lo è anche per i tanti italiani “caucasici” eccezionali che vivono nell’ombra e che per arrivare a fine mese devono fare due o tre lavori extra.
Figurarsi per chi ha un po’ di melanina in più o un taglio degli occhi considerato anomalo.
E questo senza affrontare l’equilibrio – tipicamente italiano e impensabile altrove – di conoscenze e raccomandazioni, di visibilità garantita e sfruttamento delle velleità dei giovani attori. Nelle produzioni estere alle quali ho partecipato il sistema di reclutamento è cristallino. E questo mi ha portato a prediligere la scena internazionale. Attualmente ho una quarantina di film alle spalle, con ruoli incredibilmente svariati. Ridley Scott mi ha offerto un ruolo nei panni di un prete; in Italia, a un asiatico probabilmente non darebbero neanche la parte di chierichetto in Don Matteo.
Un tabù grosso in Italia resta ancora il rappresentare un protagonista asiatico che ha una storia d’amore con una protagonista bianca italiana.
Nonostante le coppie miste siano innumerevoli e nella società non esista più questo tabù come un tempo. Sembra che il grande schermo rimanga sempre un passo indietro. Eppure, introdurre in pellicola questi elementi di vita condivisa sarebbe un successo clamoroso. Soprattutto tra i ragazzi nati in Italia da genitori di origine asiatica, che potrebbero rappresentare una grossa fetta di pubblico.
Forse la vera questione è che l’italiano medio non è ancora abituato, che produttori e registi fanno quello che si aspetta il grande pubblico.
Ho interpretato il ruolo di un primario nel reparto di oncologia polmonare per una fiction di formazione professionale all’interno dei reparti ospedalieri italiani, ma questo sarebbe impensabile in un prodotto pensato alla grande distribuzione. E non perché gli italiani non siano “pronti”: il pubblico guarda ciò che tu mostri loro. Dovremmo cominciare a rivedere le sceneggiature e i soggetti delle storie. La stragrande maggioranza dei ragazzi appartenenti a minoranze ma cresciuti in Italia non va a vedere film italiani perché sono rappresentati in modo stereotipato e negativo. Anche a livello economico è una cosa che non ha senso. Ci rendiamo conto di quali fette di pubblico state togliendo dalle sale? Sappiamo benissimo che gli adolescenti sono spesso la fascia di età che determina il successo o meno di un film.
Sono convinto che la nuova generazione cambierà drasticamente le cose. Netflix avrà sempre più controllo sulle promozioni, cambierà anche gli schemi di reclutamento attori. Mi auguro che finalmente riescano ad aprire gli occhi sempre più produttori e registi per raccontare storie nuove. Durante il lockdown sono usciti dei miei lavori di cui sono molto orgoglioso. Uno tra questi è stato Non è vero ma ci credo, in cui interpreto un cuoco romano che è diventato chef per caso. Inizialmente non ho battute, per cui lo spettatore immagina che sia un immigrato asiatico, ma quando apro bocca mi rivelo un romanaccio sulla scia del Monnezza.
Che poi, se ci rifletti, è lo stesso atteggiamento provinciale che spesso gli stessi italiani lamentano di subire nei propri confronti all’estero. Nelle pellicole cinematografiche come in altri contesti.
Solo che in quel caso le parti sono invertite e i giornalisti nostrani scrivono pagine intere urlando al razzismo e dicendo che gli italiani sono anche altro. A me questo atteggiamento fa molto male.
La reazione di molti italiani ai primi casi di Covid ne è un esempio.
Già. All’inizio, si vociferava che la colpa fosse dei cinesi, mangia-pipistrelli. Inizialmente ero scettico, perché non se ne sapeva ancora nulla (ovviamente, è bastato pochissimo per ricredermi: per me negazionisti e complottisti sono alla stregua di delinquenti e terroristi). Pensavo fosse un’operazione di marketing abilmente manovrata dagli Stati Uniti per discriminare la Cina e i cinesi. In Italia, per esempio, chiunque avesse gli occhi a mandorla è diventato dall’oggi al domani un potenziale “cinese di merda, portatore di coronavirus”. Ci sono stati numerosi casi di violenza, verbale e fisica, ai danni di cinesi, coreani, giapponesi, filippini, perfino sudamericani, a causa dei tratti somatici all’orientale. Io stesso ho subito un razzismo assurdo. In quel periodo lavoravo in Spagna, mi trovavo all’estero da sei mesi. Tornato in Italia, ho trovato un paese radicalmente diverso da quello che avevo lasciato. Si sono risvegliate vecchie ferite che pensavo sopite. Almeno dieci volte ho dovuto contare fino a venti per non andare alle mani, in mezzo alla strada.
Poi gli stati europei hanno cominciano a tacciare l’Italia come untrice.
Esattamente quello che noi abbiamo fatto verso i cinesi! Ma il peggio si è toccato quando dalla Cina sono arrivati i primi aiuti: mascherine, equipe mediche, medicinali. I giornali italiani se ne uscirono con titoli altisonanti, come “Per fortuna ci sono i cinesi”, o “La via della seta della salute”. Ma non erano gli stessi “cinesi di merda” di qualche giorno prima? Questo cambiamento non è avvenuto nell’arco di mesi, ma di giorni. Se i cinesi fossero stati rancorosi avrebbero potuto dirci, “Sapete cosa? Avete maltrattato il nostro popolo? Ma sprofondate pure”. E invece no.
A gennaio abbiamo intervistato Mohamed Ba sul suo ruolo nel film di Checco Zalone Tolo Tolo. Mohamed ci ha detto che la stereotipizzazione del continente africano era stata portata avanti dagli sceneggiatori per favorire la comprensione del film da parte del pubblico italiano. Pensi sia saggio semplificare linguaggi e concetti per permettere all’italiano medio di capire?
Innanzitutto, l’idea di promuovere il film tramite un teaser che nulla aveva a che vedere con la trama è stata geniale. Sembrava che si trattasse di razzismo pesante. Un’operazione di marketing anomala che va inquadrata nell’ironia tagliente e provocatoria tipica di Checco Zalone. Ha scandalizzato e fatto parlare, traducendosi in un successo ai botteghini. Ha fatto la cosa giusta al momento giusto: se questa comunicazione genialmente graffiante fosse stata fatta negli anni ’80, probabilmente nessuno sarebbe andato a guardare il film. Oggi i tempi sono più che maturi per rendere multietnica l’arte cinematografica italiana. Dopo il periodo del Neorealismo abbiamo avuto un momento di limbo. Tutti questi film sul filone di Vacanze di Natale per anni sono stati quelli che hanno incassato di più al botteghino. Perché? Lì dentro sta la risposta alla tua domanda.
Un’eredità pseudo-culturale alquanto gravosa.
È vero che l’italiano non è stato in grado di vedere nel cinema una fonte d’ispirazione per aumentare la sua cultura. Non era più qualcosa di culturale, ma di meramente ludico-trash-voyeurista. Sappiamo benissimo che negli anni ’80 i cinepanettoni sono emersi per l’esigenza di mostrare forme femminili in modo molto volgare ma non così esplicito come lo erano, ad esempio, nei film proiettati in cinema a luci rosse. Questo nuovo genere offriva, in maniera comico-grottesca, la possibilità di non doversi intrufolare di nascosto in reparti “per adulti” di negozi di videonoleggi. Il linguaggio di oggi è completamente diverso. Internet ha di fatto creato una porta su un nuovo tipo di informazione a cui attingere, che prima non esisteva. Un tempo c’era la solo la televisione a casa, con sei canali, e i film erano quelli che ti proponevano la Rai e la Mediaset. Si andava al cinema ogni due o tre mesi. C’era una forma di dittatura culturale. Adesso non è più così. Il ragazzino prende lo smartphone, sfoglia, “questo mi piace”, vede un trailer, due secondi di anteprima, e passa oltre. In quest’ottica, devo cercare nel minor tempo possibile di catturare l’attenzione su qualcosa. La cultura del “trailer” e dei “like” è sterile, ma pone la sfida su come si adeguerà la comunicazione cinematografica. Anche da un punto di vista interculturale, servirà concepire il cinema e la struttura dell’impianto narrativo in maniera completamente nuova.
Negli Stati Uniti hai riscontrato una simile trasposizione dei luoghi comuni sui cinesi?
Gli attori afroamericani godono di un grado di inclusione più avanzata, cinematograficamente parlando, rispetto ai colleghi asiatici. In realtà non c’è molta differenza rispetto all’Italia, in merito alle minoranze di origine asiatica. Ci sono stereotipi che permangono e resistono. Quasi tutti gli asiatici che compaiono sono i cattivi della situazione o sono grandi esperti di arti marziali. Mentre il cinema asiatico ha una varietà incredibile di sfumature, quello americano tende ad appiattirci. Eppure, sta avvenendo un grande cambiamento, perché sempre più investitori cinesi o sino-americani stanno puntando su film in cui attori asiatici recitano ruoli non stereotipati e liberi da questo tipo di imprigionamento.
Hai lavorato con grandi nomi del cinema statunitense, come Martin Scorsese e Ridley Scott. Come ti hanno segnato queste collaborazioni, umanamente e professionalmente?
Con Martin Scorsese non ho avuto grosse parti. Mi scelse la prima volta nel film sulla vita del Dalai Lama, Kundun, nel quale interpretavo un militare cinese che entrava nel territorio tibetano per assassinare il Dalai Lama. Lavorai con Scorsese una seconda volta in Gangs of New York, girato con Leonardo DiCaprio. Però sempre parlando di karma ci fu un episodio molto particolare e di grande significato per il sottoscritto. Quando in Sons of Tibet di Pietro Malegori interpretai un tibetano che si immola per protestare contro l’invasione dei cinesi, fui ricevuto in udienza da Sua Santità il Dalai Lama. Una grandissima emozione.
E con Ridley Scott?
Con Ridley Scott ho lavorato a The Vatican, che purtroppo ha avuto dei problemi di distribuzione per la tematica molto controversa. Però mi sono ritrovato per un mese intero con un cast internazionale di altissimo livello. Di quei grandi attori – che prima di allora avevo visto soltanto sul grande schermo – conservo la memoria di una grande disponibilità e di un modus operandi unico, lontano anni luce da quello italiano. E la consapevolezza che i grandi registi riescono nel proprio lavoro non soltanto per il genio innato, ma anche e soprattutto per la loro grande umanità. Questo mi ha mi ha veramente lasciato a bocca aperta. Per non parlare della professionalità dei membri del cast, anche solo per come modulavano la voce. Nell’audio originale, molti attori hanno un accento australiano, altri italiano, qualcuno statunitense, altri ancora inglese, ma si amalgano in modo sublime. In Italia, invece, la maggior parte dei film sono ambientati a Roma, il napoletano farà la parte del camorrista o del “ualla ualla” che strappa una risata, il milanese fa l’imbruttito. Se inizialmente ho avuto problemi perché avevo la faccia asiatica, poi hanno cominciato a lamentarsi del mio accento del nord, non romano.
A cosa hai lavorato ultimamente?
Ho da poco interpretato un ruolo da co-protagonista in una serie spagnola di fantascienza. Mi sono studiato le battute in spagnolo, ho fatto tre mesi di sessioni di formazione con una coach in collegamento con Madrid, e ho cominciato tutto questo processo di lavorazione della serie in Spagna. Una cosa meravigliosa, nonostante avessi dei concorrenti non da poco. C’erano degli asiatici che hanno fatto i provini per la parte – soprattutto asiatici spagnoli, che parlavano la lingua e quindi avevano una marcia in più. Io non conoscevo una parola. Non è stata semplice, ma è stata un’altra dimostrazione che le cose non “cambieranno” in un futuro indefinito, ma “stanno cambiando” già adesso.
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Profilo dell'autore
- Dal suo Abruzzo ha ereditato la giusta unione tra indole marinara e spirito montanaro. Su Frontiere, di cui è co-fondatore, scrive di diritti umani e religioni.
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L’immaginazione … è coerente con le nostre azioni, e se queste azioni corrispondono a ciò che chiamiamo il nostro dovere, la nostra virtù, allora l’immaginazione aumenta solo la pace e la gioia per noi.
Ci potreste dire di grazia quanti italiani, francesi, ecc, si vedono nei film coreani, cinesi e giapponesi rivolti al mercato domestico? Quindi noi siamo razzisti perché non facciamo vedere avvocati asiatici, poliziotti di colore, barman romulani, mentre nel cinema orientale è normale non far vedere occidentali in ruoli che non rappresenterebbero la realtà di quel posto e tempo storico.