Il coronavirus ci ha confermato che sugli esteri serve un giornalismo di qualità

Cosa abbiamo imparato dopo 24 dirette di #viaggiadacasa


Che il giornalismo sia in crisi di autorevolezza è cosa arcinota. Che a causa della pandemia questo astio si sia accentuato, anche. Insomma, fare informazione oggi vuol dire navigare a vista in un mare denso di complotti, rancori e risentimenti. Perché al sospetto verso il giornalista schiavo del potere si aggiunge l’antipatia per il portatore cinico di cattive notizie, lo sciacallo che lucra sul dolore altrui. E non sempre si può dare torto a chi la pensa così.

Questo vale in generale; per l’informazione sugli esteri la situazione è smisuratamente peggiore. Da una parte c’è un racconto estremamente sciatto, in cui i luoghi e le persone che li abitano diventano importanti solo per momentanei istanti di estrema emotività (l’India diventa il paese dell’ananas ripiena di petardi che ha ucciso l’elefantessa gravida) o per atavici risentimenti collettivi (“ridateci la Gioconda…”). Dall’altro, oggettivamente, rendere interessanti a un pubblico eterogeneo storie accadute a migliaia di chilometri di distanza, che non per forza hanno un collegamento diretto con il vissuto e il contesto culturale di riferimento dei lettori, è sfida molto ardua. Ci sono tuttavia delle bellissime eccezioni, che ci fanno capire che di questa bistrattata professione si ha ancora tanto bisogno.

Fuori dal quadro generale, ci sono piccole esperienze come Frontiere News. Negli anni ci siamo creati una ampia rete di giornalisti provenienti da tutto il mondo che qui possono raccontare le loro storie in totale libertà. La linea è semplice: al centro delle storie devono esserci le persone e non i poteri (né, tantomeno, i narratori); i racconti devono essere approfonditi e documentati; la forma ben curata. Da queste parti, insomma, non si urla né si ha la pretesa di tessere un disegno unico del mondo. Le storie sono singole e contraddittorie eppure si intersecano. Noi ci nutriamo di questa complessità.

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Questa tipologia di racconto è inevitabilmente entrata in crisi con il lockdown. Una volta scampata la tentazione di dedicarci all’ennesimo editoriale su “cosa ci insegna la pandemia”, “dove dovrà andare il mondo dopo il coronavirus” e così via, ci siamo dovuti confrontare su che tipo di racconto fosse davvero necessario in un contesto in cui apparentemente non succedeva niente perché eravamo tutti a casa a panificare e a mandarci frasi di incoraggiamento.

Così è nato il format di dirette di #viaggadacasa. Una chiacchierata di circa un’ora con un giornalista che ci racconta un paese. Dando priorità, dove possibile, a giornalisti provenienti da quei luoghi, che sicuramente li sanno spiegare meglio di noi. Si parte sempre dal Covid-19 e da come viene vissuto, per poi raccogliere quelle sfumature che non possono trovare spazio in un lancio di agenzia, nel servizio di un giornale radio o nei talk televisivi in cui gli ospiti vengono scelti non per le competenze ma per la capacità di far polemica e urlare. E poi libri, film, luoghi e cibi per capire quali sono le coordinate culturali che segnano il vissuto comune di chi vive i luoghi.

In otto settimane abbiamo fatto 24 dirette, che sono state viste complessivamente da circa 38mila persone. Numeri bassi se paragonati a quelli di uno youtuber esperto di gaming o di fitness, altissimi se si considera che ci siamo occupati di migranti haitiani in Repubblica Dominicana, jihadismo in Burkina Faso, crisi idrica in Iraq e così via.

Durante una puntata abbiamo definito #viaggiadacasa una “terapia di gruppo”, perché intorno a noi intervistatori e agli ospiti si è creato uno zoccolo duro di ascoltatori che ha fatto domande, proposto tematiche, suggerito a sua volta letture e visioni. In una parola, si è creata una comunità. Prima della liberazione di Silvia Romano, Massimo Alberizzi nella puntata sul Kenya ci ha raccontato alcuni retroscena del contesto in cui la giovane volontaria era stata rapita (tutto l’ampio lavoro di Massimo sulla vicenda lo trovate qui), Laura Silvia Battaglia e Taha Aljalal ci hanno spiegato cosa avrebbe significato una crisi pandemica nel martoriato Yemen, con Luca Onesti abbiamo destrutturato la notizia della regolarizzazione dei migranti in Portogallo. E ancora, Nello Scavo ha commentato per noi le sue inchieste sulla triangolazione della vergogna Libia-Malta-Italia e Olga Tokariuk ci ha presentato The Wrong Place, il documentario collettivo per mettere in discussione le sentenze sulla morte del reporter Andrea Rocchelli in Ucraina. E che dire di Emiliano Bos, che di fatto ha anticipato tutte le grandi tematiche sul razzismo negli Stati Uniti esplose con la morte di George Floyd?

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Non sappiamo se proseguiremo questa esperienza, e se sì in quale forma. Abbiamo tanti paesi che avremmo voluto ma non siamo ancora riusciti a coprire (Brasile, Russia, Palestina, Afghanistan e India su tutti); nel frattempo il lockdown si è allentato e con tante incertezze ci avviamo verso una nuova forma di normalità.

Quello che è certo è che: per noi di Frontiere queste dirette sono state una boccata d’aria fresca; che abbiamo potuto sviscerare tante vicende poco chiare; che tanti giornalisti ci hanno ringraziato perché abbiamo dato loro lo spazio (che in genere non hanno) per spiegare e non solo annunciare la cronaca; che tantissimi ascoltatori ci hanno ringraziato perché hanno potuto assaporare e vivere storie sconosciute.

Chiudiamo questo articolo con due considerazioni e alcuni ringraziamenti. La prima considerazione è che fare un giornalismo di qualità sugli esteri si può; forse rimarrà sempre di nicchia, ma deve e può trovare uno spazio importante e avere come protagonisti i tanti giornalisti competenti che l’Italia ha a disposizione. Abbiamo reporter nati e cresciuti all’estero o di seconda generazione in grado di fare da ponte tra culture diverse, giornalisti investigativi che stanno lavorando a inchieste di altissimo livello: editori, dategli spazio!

La seconda considerazione è che il giornalismo sugli esteri non può non allargare il pubblico di riferimento alle comunità migranti. Un giornalismo equilibrato e plurale che considera le esperienze, gli interessi e i punti di vista di chi migra può contribuire ad arricchire il racconto e creare coesione sociale e quindi contribuire a debellare la xenofobia. Le puntate su Marocco, Albania, Bulgaria e Ucraina (non a caso i paesi di provenienza di alcune delle comunità più cospicue del nostro paese) ne sono una viva dimostrazione.

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Ringraziamo i giornalisti, che ci hanno dedicato ore importanti del loro lavoro o del loro tempo libero. Infine, grazie a tutti voi che ci avete seguito fin qui. Vi promettiamo che faremo tesoro di questa esperienza per darvi altri contenuti di qualità.

Joshua Evangelista, Luca La Gamma, Valerio Evangelista


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